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Se vince è fenomeno, se perde nulla può

allegri
Venerdì sera, nell’anticipo della Premier League, Antonio Conte ha perso la sua prima partita interna contro il Liverpool (1-2). Ben lungi dal fare scalpore, il fatto è stato raccontato in maniera neutra da quasi tutti i media italiani che hanno eletto l’allenatore ad ambasciatore del nostro calcio all’estero, un’opera di beatificazione cominciata con l’Europeo di Francia. Anche in quella circostanza un mezzo fallimento (eliminazione ai quarti di finale contro la Germania ai calci di rigore) è stato spacciato come un trionfo. Eppure, quando nel 1998, l’allora c.t. Cesare Maldini perse con le stesse modalità dalla Francia, al Mondiale, fu giubilato al suo ritorno in patria e sostituito con Dino Zoff. Il presidente della Federcalcio di allora era Luciano Nizzola, una persona seria, che conosceva il valore del risultato sportivo. Adesso che il presidente è Carlo Tavecchio non c’è stato bisogno di nessuna sostituzione, Conte se n’è andato perché aveva già firmato con il Chelsea, ma c’è chi, in un’Italia calcistica sempre più dedita al trasformismo, rimpiange il c.t. e i suoi atteggiamenti. Sinceramente non posso non dirmi sorpreso. Primo, perché considero Conte niente più che un bravo allenatore, come ce ne sono tanti in Italia e in Europa. Secondo, perché mi sfugge dove risieda la sua particolare capacità rispetto a quella altrui. Massimiliano Allegri, che alla Juve è arrivato in tutta fretta dopo di lui, ha vinto due scudetti, due Coppe Italia ed è approdato alla finale di Champions League 2015, un traguardo che Conte non ha neanche lontanamente sfiorato. In più, se proprio vogliamo metterla sulla contabilità spicciola, Allegri ha conquistato anche uno scudetto con il Milan e quindi fanno tre, esattamente come quelli di Conte, ma con due squadre diverse, il che ne aumenta il valore. Conte ha preso il Chelsea dopo un anno disgraziato, ma forse dimentica che solo nella stagione precedente, con Mourinho in panchina, aveva vinto sia la Premier, sia la Coppa di Lega. Proprio per questa ragione suona stonato il continuo riferimento al “decimo posto dell’anno scorso”, un po’ come faceva alla Juve quando gli chiedevano di vincere subito. A lui piace ricordare che, se accadesse (se accadrà), il merito è solo suo, senza nulla concedere ai predecessori o alla società che, anzi, non sempre rema dalla stessa sua parte (ricordate la parabola del ristorante da cento euro dove non si poteva cenare con dieci?). Tuttavia a Conte nessuno mette nulla nel conto. Se vince è un fenomeno che trascina i suoi dalla panchina, se perde non si può pretendere che faccia miracoli
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