Qatar 2022
04 Dicembre 2022
La foto dei giocatori della Francia in posa con la maglia del loro primo club dilettantistico dove hanno mosso i primi passi scattata per L'Equipe
La Francia, ahi noi, dà una lezione a tutto il mondo del calcio. E in particolare a noi ‘italiani brava gente e paese di commissari tecnici e/o fuoriclasse mancati’. Sì, perchè la foto scattata per il giornale sportivo di bandiera, L'Equipe, da tutti i componenti della nazionale transalpina, protagonista al mondiale in Qatar, con gli etichettati milionari ‘presuntuosi’ che sfoggiano ognuno una maglia. La notizia, la storia e la 'lezione' però sta tutta in quelle maglie. Che non sono dello sponsor, della nazionale o del proprio club professionistico ma, bensì, ma sono del loro primo club dilettantistico dove hanno mosso i primi passi. Ben prima di diventare quello che sono oggi. Ed è in quella foto il motivo e il significato del successo del movimento calcistico francese. Al mondiale del Qatar 2022 e non solo.
Nazionale francese che da oltre 20 anni ormai, sfoggia formazioni e giocatori di livello mondiale, ma che, in questa foto e nell’idea che porta a quella foto con il suo significato, rappresenta la risposta migliore alla domanda delle domande che ci facciamo noi italiani da almeno 8 anni, vista la doppia mancata qualificazione ai mondiali: perchè il calcio italiano ‘è in crisi’, non crea e plasma più talenti e ha una nazionale che più zoppicante non si può? Una nazionale italiana che aveva illuso e riempito le bocche dei soloni, al trionfo europeo. Successo che aveva illuso di aver ritrovato il bandolo della matassa ma che invece è stato ‘schermo protettivo’ di una realtà che, con la mancata qualificazione al mondiale in Qatar, ha riproposto gli interrogativi da telegiornale e salotti televisivi.
Un po’ come nella nostra storia. Dove i successi, vedi il Mundial 1982 così come il trionfo di Berlino del 2006 (per arrivare all’ultimo Europeo), non sono mai stati espressione e frutto di un lavoro ‘di programmazione di un sistema’. Non sono mai stati ‘frutto di organizzazione e simbiosi tecnica e culturale’. Basti ricordare il clima (splendidamente riproposto anche dalle celebrazioni per i 40 anni dal trionfo di Madrid) in cui la nostra nazionale arrivò e giocò in Spagna, tra polemiche, onda lunga di inchieste che avevano travolto il calcio italiano (cambiano tempi, modi e motivi ma anche qui, la storia si ripete…). Nello scetticismo di ‘quei soliti soloni’. Scenario che si è ripetuto nel 2006, quando sulla scia di Calciopoli, la nazionale andò in Germania più per ‘togliersi dall’occhio del ciclone mediatico’ che psicologicamente accompagnati da un movimento e un paese intero, all’impresa mondiale.
Giocatori francesci in posa non per uno sponsor, non per uno stilista, non per una foto da mostrare in qualche cerimonia istituzionale ma con indosso l’orgoglio e il pensiero da dove tutto e tutti avevano cominciato a inseguire un pallone e un sogno. Le maglie delle squadre dilettantistiche mondiali francesi assumono significati che vanno oltre. Ed è in quei significati che si specchia e si legge il fallimento del calcio e del sistema calcio in Italia. Perchè, mostrando e portando alla ribalta del mondo le maglie delle omonime, piccole e sconosciute società dilettantistiche, hanno regalato al movimento del calcio più sano e spontaneo, la giusta e meritata vetrina. Il giusto e meritato riconoscimento del fatto che, senza una base solida, sana, con idee e progetti, nessuna nazionale può essere davvero ‘mondiale’. Ed è questo il riflesso del fallimento nostrano.
Indossare le maglie delle squadre dilettantistiche dove si è cominciato, significa esprimere la progettualità dell’intero movimento calcistico francese e nazionale. Significa rappresentare l’espressione migliore e più alta del calcio giovanile e dilettantistico. Da cui tutti quei campioni - ora affermati e glorificati - sanno che, se non avessero trovato quelle società a farli crescere, oggi non sarebbero dove sono. Cresciuti all'interno di un contesto tecnico e culturale con tecnici e dirigenti preparati, stimolati da un sistema che nell’organizzazione e nei principi condivisi, ha trovato la forza di creare un vero e proprio movimento. Non di vincere ogni tanto ‘quasi per caso’.
Ed è qui la differenza tra l’Italia e la Francia ma anche Spagna e Germania. Nazioni e nazionali che non hanno vinto un’edizione di un mondiale per combinazione e combinazioni' ma che hanno creato le basi strutturali per generare e plasmare generazioni di talenti, costruendo un modello vincente, un sistema. Così la Francia, come la Germania e la Spagna, hanno dato impronte a decenni calcistici, hanno alzato trofei a ripetizione. Hanno pensato al calcio, alla valorizzazione dei propri giovani, alla costruzione di modelli tecnici e strutturali. Dagli impianti alla cura di un progetto condiviso da tutti, dalla base ai professionisti, in una visione comune e mutualistica ben consapevole che senza una vera cooperazione tra le varie ‘categorie’ (a livello di distribuzione delle risorse, della valorizzazione del lavoro dei club di base e non solo) non c'è futuro per nessuno.
Mentre noi ci riempiamo di parole, 'progetti' e false illusioni da quasi 20 anni. In cui abbiamo sentito parlare di riforme dei campionati… Ci interroghiamo sul ‘Club Italia’… Professiamo nel deserto il ‘progetto seconde squadre’… Facciamo progetti e abbiamo stravolto alla base il gioco più bello e semplice del mondo con giochini, punteggi federali a mascherare imbarazzi di adulti. E vediamo un campionato Primavera con più stranieri che italiani. In un'onda che si propaga sempre più in profondità anche nei campionati Under 18, 17 e non solo... E facciamo più 'mercato che politiche giovanili'.
In questo e per questo, la fotografia della 'Francia dei dilettanti mondiali', rappresenta lo specchio del nostro fallimento. Una Francia che pur avendo una squadra di top player infortunati e non convocabili per il Mondiale, schiera una corazzata tra le favorite ad alzare la coppa. Mentre il nostro ct Mancini, in condizioni ‘normali’, fa fatica a convocare 22 giocatori italiani che giochino in Serie A e, in caso di assenze e defezioni, per andare a ‘scovare’ un italiano, deve sondare i campi della Serie B per poi stupirci che non reggiamo il campo e il confronto con chi è abituato a giocare la Champions…
Una Francia dove, ad esempio, i centri federali di formazione sono fiore all’occhiello ed espressione massima di un sistema di base che lavora per far emergere il talento. Da noi invece, seppur partiti con una buona idea di Tavecchio, i Centri federali sono diventati dei casellari per assegnare un po’ di materiale dello sponsor tecnico, per far fare ‘un giro in giostra’ a tanti ragazzi di cui poi non rimane traccia in una vetrina fine un po' troppo a se stessa. Una sorta di foglia di fico di un movimento che si nasconde e si accontenta delle etichette, dei contenitori, delle poltrone e degli incarichi senza pensare davvero al ‘bene comune e all’obiettivo finale’ di creare giocatori.
Per non parlare del contesto politico e culturale e manageriale in cui, in Italia, il calcio ristagna. Proprio in questi giorni stiamo assistendo ad un nuovo uragano che si sta abbattendo e rivelando nella sua criticità. Dagli anni dei vari crack Cragnotti-Lazio, Parma-Tanzi e non solo, siamo passati a Calciopoli e ora - senza entrare nel merito delle questioni giudiziarie e senza puntare il dito contro uno solo e soltanto - un altro uragano si sta scatenando. Non su una singola società o su un singolo presidente ma sull’intero movimento e panorama calcistico italiano.
Come si fa, infatti, a parlare di programmazione, valorizzazione dei vivai e dei giovani, di mutualità tra professionisti e dilettanti, di percorsi culturali e istituzionali che mirino alla crescita generale e non al riempimento di poltrone e pance individuale, quando i massimi esponenti dei nostri club e delle istituzioni intendono questo mondo soltanto in chiave ‘politica-economica’? E dove un giovane calciatore non rappresenta per il proprio club un patrimonio tecnico ma diventa semplicemente un valore da voce di bilancio, un pacchetto-benefit per agenti, dirigenti di società e conti finanziari più che una risorsa da tutelare?
Ed è in questo che in quella foto dei giocatori francesi sale la ‘rabbia’ per chi vive e racconta il calcio giovanile e dilettantistico in Italia. Perchè si capisce e si intuisce la distanza che ci separa e ci separerà da chi lavora con idee e chi, come noi, insegue un risultato fine a se stesso. Sul campo. Nei bilanci e negli equilibri politici. Come si fa a parlare di sistema, di movimento, di innovazione e condivisione se il nostro calcio viene trattato, analizzato e deciso sulle scrivanie e nelle cene ristrette soltanto ad alcuni personaggi protagonisti?
E, cosa ancora più grave ed emblematica, come si fa a parlare di progettualità e cambiamenti culturali se i massimi esponenti del nostro calcio ammettono di partecipare a 'ritrovi privati' senza avvertire imbarazzo. Non intuendo che sarebbe stato 'meno grave' parlare di altro e non di calcio in quelle occasioni 'esclusive'. Senza capire che, fin quando il nostro calcio sarà discusso, analizzato e deciso proprio in quelle ‘sedi private’ e non nelle assemblee, nei consigli di lega, negli incontri con le società e con la base, continueremo ad ammirare sempre e solo le foto degli altri...