Cerca

Intervista, l'ultima fatica di Barbara Di Stefano

Barbara Di Stefano

Barbara Di Stefano

Relegare Barbara Di Stefano al ruolo di bomber del calcio alessandrino sarebbe riduttivo, ma la carriera della numero 7 in grigio è legata indissolubilmente alla sua terra, dagli inizi al rione Orti, alle corse dopo un gol sotto la curva al ‘Moccagatta’ passando per le sue ‘patate’ alla Novese e alle promozioni di Acqui fino all’anno a Biella vissuto comunque da pendolare. Di questo e tanto altro ci si dovrà ricordare per poter celebrare al meglio il suo addio al calcio. Già, perché a soli 32 anni, questa sarà l’ultima stagione di una grandissima carriera per Barbara Di Stefano. La tua è una carriera vissuta interamente in Piemonte. Perché hai deciso di non spostarti? A 15 o 16 anni mi è arrivata la prima chiamata dalla Torres ma rifiutai. Poi le chiamate dalla Sardegna le ho avute ancora fino all’anno scorso, ma cosa ci vado a fare? Lì c’è vitto e alloggio, ti danno un lavoro part time per 10 mesi ma poi? In più non mi piace molto la gestione che hanno lì. Se io resto a casa ho più possibilità di trovare qualcosa di continuativo. Partiamo da dove tutto è iniziato. Dai 7 ai 14 anni ho giocato nel G.S.Orti, la squadra del mio rione. Ogni pomeriggio ero lì in parrocchia a giocare con i maschi e questo mi ha insegnato tanto. A 14 anni quando entravi nel femminile e arrivavi dal maschile ti dicevano che avevi una marcia in più. A un certo punto c’è stato un signore che mi seguiva dappertutto che era un dirigente dell’ACF Alessandria, a quel tempo non era come oggi che per trovare una persona basta andare sui social, ma dovevi proprio cercarla. Mi ricordo che venne al bar di mio fratello e dei miei, ci parlò e da lì andai all’Alessandria. Con questo ritorno hai vestito la maglia dell’Alessandria per oltre 10 stagioni, quali sono i ricordi più belli che porti con te? Il momento top è stato sicuramente il campionato disputato al Moccagatta. Per un’alessandrina, vestire la maglia dell’Alessandria, nel tempio del calcio alessandrino, dove c’è storia, fare gol sotto la nord o sotto la sud è indescrivibile. Quando la maschile giocava in trasferta c’erano quei tifosi che non la seguivano che venivano a vedere noi, questi erano in 10 ma sembravano in 150. L’Alessandria di quest’anno è una squadra davvero molto giovane, contro l’Independiente ha giocato titolare una 2006. Cosa cerchi di trasmettere a queste ragazze più giovani? Ogni tanto do qualche consiglio, proprio mercoledì scorso a Debora Cavallero (la classe ’06) ho detto la classica frase ‘lascia andare la gamba’. Io avevo un problema al piede per cui non calciavo e la stavo a guardare. Le ho chiesto se avesse capito cosa intendessi perché non è scontato, le ho spiegato che lasciare andare il piede significa imprimere più forza al tiro e direzioni meglio la palla, che è il piede d’appoggio quello che la direziona. Poi a livello caratteriale cerco di spronarle. Per esempio per Alessandria-Spezia che anche nel maschile è molto sentita ho cercato di motivarle. Io a fine stagione comunque chiuderò la mia carriera. Volevo smettere già lo scorso anno ma non mi andava che a farmi smettere fosse la pandemia. Questo non è calcio, non lo sto vivendo bene. Tra poco farò 32 anni, con 24 stagioni alle spalle e un lavoro full time. Per fare questa categoria ci vuole una certa mentalità. In Eccellenza forse potrei ancora giocare 10 anni, ma io sono ambiziosa, non trovo soddisfazione a fare 30 gol lì, come due anni fa con l’Alessandria, ma quello era un conto perché serviva per riportare la squadra nella categoria superiore. Alla fine della tua carriera da giocatrice, ti vedi in panchina? Ci ho pensato, sono scelte difficili. Sono ancora troppo giocatrice per vedermi come allenatrice. Quando ero a Novi però, per un anno e mezzo ho allenato le piccole dai 7 ai 10 anni e mi piaceva molto. Avevo una mia attività e mi gestivo il tempo come volevo. Mi ero affezionata molto ed è stato anche un po’ traumatico lasciarle. Umanamente è stato bellissimo, vederle queste ‘patate’ che non sapevano fare niente all’inizio e poi guardarle pochi mesi dopo che calciavano e stoppavano il pallone. Novese, Acqui e Biellese, cosa ti rimane di quelle esperienze? Ad Acqui siamo partite dalla Serie D e siamo salite di categoria vincendo il campionato, non in modo così scontato, ma abbiamo vinto. L’anno dopo abbiamo vinto anche la C e poi siamo andate in blocco alla Novese. A Novi sono gli unici anni in cui mi sono trasferita e ho vissuto lì. A Biella invece era la prima volta che ho giocato così lontano, ma sono rimasta a vivere ad Alessandria facendo 200 km al giorno. Facevamo la macchinata da Alessandria con alcune mie compagne, sono andata alla Biellese perché c’era l’ambizione di fare bene, c’era motivazione con una squadra composta da giocatrici di categoria ma soprattutto di mie amiche. Abbiamo rifatto un gruppo di amiche prima ancora che di giocatrici. La stagione però non è finita, l’Alessandria al ritorno in campo ha fatto fatica. Arrivo da due sconfitte pesanti (l’intervista è stata fatta venerdì 5 ndr) e quindi mi girano anche. Ma non posso prendermela con nessuno in particolare. Ci sono piccoli dettagli che potevano essere limati, ma non sono stati limati. È un campionato atipico, lo prendo così. Abbiamo disputato la prima partita con sei allenamenti alle spalle. Un po’ per scelta societaria, un po’ per la zona rossa. Non cerco scuse ma è anche questo insieme di cose. Sto facendo una fatica immensa perché è come rifare una preparazione, ritrovare la condizione così come l’avevamo è impossibile e penso che il campionato sia falsato.
Commenta scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Sprint e Sport

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter