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L'intervista: la coerenza di Veronica Cantoro

Veronica Cantoro (foto Valletta)

Veronica Cantoro (foto Valletta)

Dagli esordi e il Superoscar con il Chieri alle giovanili con la maglia azzurra, passando per gli Scudetti e le Coppe Italia accarezzati e l’avventura in Premier League. La carriera del difensore Veronica Cantoro, può essere sì anche considerata come quella, per sua stessa definizione, di ‘eterna seconda’, ma è anche un percorso coerente, onesto e senza scorciatoie. Qualche rimpianto c’è, ma non il tempo di pensarci troppo perché ora è parte di una vera grande famiglia: l’Independiente Ivrea. E se le ultime due frasi vi sono sembrate zeppe di luoghi comuni e stereotipi, prego, continuate a leggere l’intervista per ricredervi. Quali sono stati i tuoi primi passi nel mondo del calcio? Io sono di Chieri e ho cominciato a giocare a calcio scendendo con gli amici del quartiere al parco. Ho iniziato a giocare molto presto nel Chieri, credo che andassi in seconda elementare. È una passione nata da me perché in famiglia il calcio non è tanto seguito. Mi sono sempre piaciuti di più gli sport di movimento in generale. Il mio primo allenatore al Chieri è stato Enrico Migliore (ora tecnico del San Giacomo Chieri in Promozione) e poi ho avuto Alessandro Spugna (coach dell’Empoli Ladies in A), mi fa sempre piacere rivederlo. In quegli anni abbiamo vinto anche il Superoscar. È il periodo che ricordo più con piacere forse perché quando sei piccolo vedi tutto molto più bello o forse perché effettivamente sono gli anni migliori. Dopo Chivasso e Alessandria, nel 2006 il tuo approdo al Toro e la migliore stagione granata della storia, tu hai giocato molto. Come è stato per la prima volta confrontarsi con grandi campionesse? Quella stagione avevamo chiuso il girone di andata in testa, ma dire che ce la siamo giocata fino in fondo non sarebbe la realtà perché il Bardolino dopo un po’ ci ha staccate. Oltre al secondo posto però abbiamo disputato la finale di Coppa Italia, la prima a finale doppia della storia che stavamo per vincere se una compagna non avesse sbagliato un passaggio facile negli ultimi minuti. L’allenatore era Giancarlo Padovan che aveva punti forti, ma era anche molto emotivo per delle cose da nulla, invece poi quando c’erano delle situazioni da gestire era bravissimo a rimanere lucido e distaccato. Tra le compagne ricordo con piacere Elisa Miniati con cui poi siamo diventate amiche. Era molto motivata in quello che faceva, aveva questa fame, questa voglia e lo trasmetteva a tutte. Arriva poi la chiamata dalla Premier, come è avvenuto quel passaggio e che tipo di professionalità c’era in Inghilterra? Il passaggio non è stato complesso perché io ero nella nazionale Under 19 in un torneo in Spagna dove avevamo chiuso bene il girone e avevamo battuto squadre forti come la Svezia. C’erano osservatori di tutto il mondo e anche inglesi. Uno di questi propose a me e ad alcune compagne di mandare una mail per delle società che potevano essere interessate. Così sono arrivata al Doncaster. Lì a livello mediatico e di interesse popolare erano più avanti, la partita della nazionale ad esempio era trasmessa dalla nostra corrispettiva Rai Uno quando in Italia Rai Sport preferiva dare l’ippica piuttosto che noi. C’era il semi-professionismo per cui la squadra stringeva un rapporto con te ma potevi implementarlo con sponsor esterni. I metodi di allenamento erano divertenti, ma veniva prima di tutto il giocare, giocare fino alla fine e poca tattica. Il ricordo che ho è che andavano come dei treni. Mi davano vitto e alloggio e ho fatto anche dei lavoretti giusto anche per integrarmi e imparare bene la lingua. Formulavano un campionato, ma non sempre rispettavano il calendario. Se una squadra aveva 10 giocatrici in Nazionale rimandavano la partita, in Italia invece ti facevano storie. Ho giocato contro grandi campionesse come Kelly Smith, Alex Scott o Lianne Sanderson, fortissima che all’epoca era capitana della nazionale. Segue il ritorno in Italia alla Reggiana di Milena Bertolini, che rapporto hai avuto con lei? Quella stagione era partita benino, Milena era già molto brava a livello tecnico-tattico, ma faceva tutto lei: preparatore atletico, allenatrice, non aveva un secondo. Viveva il fatto di stare in blocco e prediligeva il far giocare le più esperte a discapito delle giovani. Quell’anno poi lamentavo un dolore al ginocchio che veniva interpretato come una non voglia di allenarmi. Verso fine stagione ho voluto fare una risonanza magnetica e mi è stata riscontrata una condropatia di quarto grado. C’è stato un momento in cui sono stata più vicina a mettermi una protesi che al pensare di poter tornare in campo. Poi ho fatto ancora degli anni a grandi livelli, ma non sono più stata quella di prima anche perché giocando ci sono quei piccoli fastidi che senti sempre. Lazio, la Champions con il Bardolino e il Mozzecane, altre stagioni ad alti livelli. Della Champions mi ricordo il mio primo cartellino rosso. Marcavo una giocatrice molto veloce e il secondo giallo lo presi perché invece di stoppare la palla decisi di spazzarla in fallo laterale e andò fuori dall’impianto. L’arbitro mi espulse e non ho mai capito perché. Il secondo anno siamo arrivate seconde, nessuno si aspettava noi così in alto. Quello Scudetto non l’abbiamo perso contro la Torres che anzi abbiamo battuto, ma perdendo con il Milan ultimo. In quella squadra c’erano Gabbiadini, Pini e Carissimi che giocavano in nazionale e Cristiana Girelli. Al Mozzecane sono andata perché erano un paio di anni che stavo a Verona e mi piaceva viverci, l’allenatice (Antonella Formisano ndr) mi aveva convinta del progetto. La società invece non si è comportata bene e hanno cacciato l’allenatrice. In più ti venivano promesse certe cifre a inizio anno che poi non ti davano. A metà stagione la metà delle 11 titolari, tra cui me, hanno lasciato la squadra. Dovevo andare al Brescia, mi chiamò il presidente Cesari e stavo per firmare. Poi ho saputo che avrebbero cambiato allenatrice e quando il presidente mi ha detto che al posto della Grilli avrebbero preso la Bertolini ho rifiutato perché non volevo rivivere l’esperienza alla Reggiana che mi aveva portata al grave infortunio. Certo è che poi le ragazze di quel Brescia hanno potuto tutte fare una grandissima carriera e tante sono state protagoniste ai mondiali del 2019. Da quel momento lo stop e poi il ritorno in Piemonte prima a Luserna, poi a Canelli e ora all’Independiente. L’Independiente da neopromossa in Serie C mi ha fatto subito una buona impressione anche perché non si è posta obiettivi di vincere tutto. Ma è una società che rispetta le giocatrici prima come persone. Il presidente è un super appassionato, pronto e disponibile. Alcune ragazze anche qui vedono la Serie A come qualcosa di irraggiungibile, ma non è vero. Dico sempre a loro che nella Juve o nella Nazionale hanno anche loro due braccia e due gambe, se mi fossi allenata anche io 5 volte alla settimana forse sarei rimasta ancora tanti anni in A. Se avessi investito sul calcio magari, qualche offerta negli ultimi anni l’ho avuta, ma mi sono chiesta se avesse senso andare lontana di nuovo tot km da casa per 1000 euro e tirare la cinghia per 8 mesi. Ne vale la pena? Il problema è quando le giocatrici accettano questa cose.
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