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Il Pungiglione

Le catene nel mondo del calcio: non solo un tatticismo ma anche un termine per "farsi belli"

Un neologismo molto usato su giornali e tv che in realtà di nuovo ha poco o nulla: se ne parlava già nel 1970

Le catene nel mondo del calcio: non solo un tatticismo ma anche un termine per "farsi belli"

Desideroso di investigare, per saperne di più, sulle catene - termine tattico ideato nella new era del football - così da poter scovare quale cervello le ha coniate, ho seguito il mio istinto, e in qualità di Pungiglione mi sono messo a indagare. Ho chiesto lumi al dizionario Garzanti digitando sul computer il sostantivo “catena”. Ecco la risposta immediata: «Serie di anelli, generalmente metallici, infilati uno nell'altro, usata per legare animali, cose, o persone». Sulle persone aggiunge: «Esse si tengono allacciate tra di loro passandosi un oggetto di mano in mano». Non vado oltre, mi basta, adesso è tutto chiaro, ho raggiunto il mio obiettivo, penso di avere trovato le prove, gli indizi, la via da seguire per poter smascherare quel sapientone (probabilmente un teorico di sacchiana memoria) arrivato al calcio che conta senza averlo mai giocato. Chi sarà l'innominato che ha introdotto nel glossario calcistico la per me odiata espressione “catene di giocatori” di destra o di sinistra, i quali si tengono collegati tra di loro passandosi il pallone cercando di creare trame e situazioni di gioco pericolose. Le catene, ahimè, hanno seppellito i settori, le zone, le corsie, eliminato i ruoli di chi li occupava, l'ala tattica, il tornante, il fluidificante, il giocatore di raccordo, sia di destra che di sinistra. Tutto finito, le catene con i loro esterni hanno cancellato tutto e tutti.

Raggiunto il mio scopo, adesso cerco un aiuto, un regalo, lo chiedo al direttore Claudio Verretto, e a chi accoglie ed approva i miei articoli, Carlo Federico Ferrero, e a tutti coloro che scrivono per Sprint e Sport, ai lettori, al me stesso che continuerà le ricerche per trovare il genio che ha fatto entrare certi concetti nelle teste sia di chi vive professionalmente con il calcio ad alti livelli, fino ad arrivare a chi gira con la Gazzetta dello Sport nella tasca dietro dei pantaloni. Chi parla di catene nel calcio pensa di esibire un biglietto da visita, una laurea che ti permette di poter affrontare argomenti tattici di alto livello. Per me invece le catene sono un incubo, non c'è partita in tv senza che la prima o la seconda voce le nominino, idem nel dopo partita gli opinionisti di prima, seconda, terza fascia, fino agli urlatori nelle televisioni private. Anche su una rete televisiva esclusivamente sportiva h24 diretta da un convinto tuttologo del calcio le catene vengono sparate a raffica e discusse da presentatori poco più che maggiorenni che si fanno delle domande e si danno delle risposte tra di loro toccando argomenti tecnici studiati poco prima sui giornali: le catene, il gioco dal basso, le marcature preventive, il gioco tra le linee, il palleggio, il pressing, le letture, l'occupazione degli spazi.

A questo punto, a chi non farebbe piacere di vedere il volto, conoscere il nome e la storia di chi è riuscito a diffondere questo neologismo tattico a tal punto da farlo inserire nel nostro vocabolario calcistico pensando di portare originalità. Sia esso un docente dei corsi per allenatori di Coverciano, o un grande giornalista, un opinionista, un famoso coach in pensione che fa ancora della teoria e della critica la sua nuova professione, o un divulgatore del calcio, come ama autodefinirsi l'ex calciatore e voce televisiva Lele Adani, il quale è inconsapevole di essere affetto da una sindrome illusoria di sapere tutto (potrebbe in effetti essere proprio lui l’obiettivo di questa ricerca). In ogni caso, a chi si palesasse direi che la caccia ad un linguaggio più culturale da inserire nel calcio, non contribuisce né a migliorare lo spettacolo, né la fantasia tecnica dei calciatori. Nel preistorico 1969/70, dove in Italia teneva banco il “movimiento” di Heriberto Herrera (l'attuale occupazione degli spazi), e anche il “taca la bala” di Helenio Herrera (l'attuale pressing a tutti campo), ero un giocatore della Juventus in prestito al Potenza da poco retrocesso dalla Serie B. Fu allora che sentii parlare per la prima volta di catene. L'allenatore di allora, il signor Ettore Trevisan, pretendeva che la squadra, dall’1 all’1, dovesse essere concatenata tutta insieme, per muoversi e spostarsi nei 120 metri x 60 del campo in considerazione della posizione della palla e affinché ogni calciatore fosse d’aiuto per i compagni. Una tattica di allora che ritengo oggigiorno ultra moderna (basti vedere la partita dell’ultimo turno di Champions League, PSG-Manchester City 4-2): le due squadre legano gli undici calciatori tra di loro da catene invisibili in tutte e due le fasi: di difesa per la conquista della palla, di attacco con il possesso della sfera cercando il gol con movimenti di smarcamento e occupando spazi vuoti (preferisco identificarlo come “calcio totale”). Uno spettacolo. Ma come sostengo da sempre, anche per far funzionare le catene, per fortuna, ci devono essere i piedi dei calciatori, perchè sono loro che creano gli schemi, sempre uno diverso dall'altro, che tanto piacciono ai teorici da salotto, i quali li attribuiscono alla mano fatata dell'allenatore, alle sue sostituzioni, alle lettura della gara, o a un discorso tra primo e secondo tempo. Nella realtà del campo non è così, e concludo dicendo che anche un grande allenatore, e le sue innovative catene di destra e di sinistra, con giocatori mediocri retrocede. Un allenatore scarso invece, anche senza catene studiate nei minimi dettagli ma con giocatori forti e un paio di fuoriclasse, vince campionati e magari pure qualche coppa.

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