Il dilemma
07 Aprile 2025
Il piccolo Vincenzo Sarno in azione in un allenamento con la maglia del Torino dove approdò nel 1999 a soli 10 anni per 120 milioni di lirevi
Era il 1999 quando Vincenzo Sarno, all'epoca solo un ragazzino di 10 anni con il sogno di sfondare nel mondo del calcio, fece il grande salto dalla Scuola Calcio Gaetano Scirea di Napoli, approdando al Torino. Un trasferimento che fece scalpore, non solo per la cifra di 120 milioni di lire, considerevole per l'epoca, ma anche è soprattutto per le aspettative che si erano create attorno a questo giovane talento partenopeo, soprannominato “il figlio di Maradona”. Sarno, con il suo mancino fatato, era visto come una delle promesse più luminose del panorama calcistico italiano. Un'ala destra capace di inserirsi in profondità, sfruttando la sua velocità e tecnica per creare scompiglio nelle difese avversarie. In realtà la sua esperienza torinese durò molto poco, per poi rientrare a casa e approdare, senza clamori, nel settore giovanile della Roma nel 2002.
Dopo 25 anni da quel fragoroso trasferimento e un lungo girovagare per società e categorie italiane, in settimana Sarno ha annunciato definitivamente il suo ritiro dal calcio giocato. Un’occasione per tornare sul suo passato che, per quanto la sua sia una storia quasi unica, ha in realtà molto in comune con il percorso che tanti bambini e ragazzi del calcio dilettantistico vivono di stagione in stagione. Un percorso fatto sì di sogni, ma anche di momenti complicati e decisioni molto difficili da prendere, più che mai quando arriva l’interesse di un club professionistico.
«Facevo la quinta elementare. Hanno detto che il Torino avrebbe dato un lavoro a mio padre, che lui avrebbe trasferito la famiglia al Nord. Non andò così. Mi ritrovai da solo, dentro una vita che non conoscevo. E che da subito ho rifiutato». Queste alcune delle dichiarazioni rilasciate da Sarno a La Republica, un racconto di difficoltà e sofferenza, tutto per inseguire un sogno più grande di lui: «Ero infelice. Appena mi mettevo a letto, piangevo. Trasferire un bambino da Secondigliano a Torino, senza genitori, appoggiarlo prima in albergo, poi nella cameretta di un conoscente è stato un errore».
Il piccolo Vincenzo Sarno in azione durante un allenamento con la maglia del Torino
Seppur di proporzioni esagerate rispetto alla media, la storia di Sarno può e deve essere presa da esempio per tutti quei papà e quelle mamme che oggi stanno vivendo il grande dilemma: porto mio figlio a giocare in un club professionistico che ha mostrato un interesse nei suoi confronti, o lo tengo nella società dilettantistica in cui ora è sereno e contento di giocare e condividere del tempo con quelli che sono ormai diventati dei suoi ottimi amici? Mi è capitato per caso di parlarne con un papà giusto qualche giorno fa, ed è chiaro che la grande paura, non soltanto sua ma credo di ogni genitore, è di fare la scelta sbagliata. In altre parole, di minare la serenità del proprio figlio e di compromettere il suo futuro. Sappiamo benissimo che la percentuale di calciatori che arrivano al professionismo è molto bassa, ma il grande sogno rimane sempre vivo, specialmente per chi rasenta i top club giocando a lungo nelle migliori società dilettantistiche.
Non c’è una risposta giusta o sbagliata al dilemma, qualunque tipo di esperienza può essere formativa e la buona riuscita, il “lieto fine” di un cambio così radicale o anche di un semplice salto di livello in seguito al trasferimento in un club professionistico dipende dalla risposta emotiva e caratteriale del singolo bambino o ragazzo. Negli ultimi anni siamo stati testimoni del percorso di tanticalciatori che, dopo essere stati attenzionati e prelevati da Juventus, Torino, Pro Vercelli e così via, dopo mezza stagione sono tornati alla base perché non sono riusciti a integrarsi. Allo stesso tempo, seppur in misura minore, non mancano le storie di chi ce l’ha fatta e ce la farà sempre. L’unica certezza da cui bisogna tassativamente partire è che la scelta, in una direzione o nell’altra, non può minare la serenità del calciatore, specialmente se si tratta di un bambino molto piccolo. Fino a una certa età, dare priorità a sogni e speranze di grandezza, pensare al proprio figlio come a colui che risolleverà il destino della famiglia (esattamente come accaduto nel caso di Vincenzo Sarno), è l’errore più grande che qualunque genitore possa fare. Ma lo sarebbe anche se la percentuale di quelli che “arrivano” fosse molto più alta. Significa strumentalizzare un ragazzino, renderlo l’oggetto attraverso cui riscattare una vita insoddisfacente che può trasformarsi in comoda e sfarzosa. Ma sono poi queste le vere soddisfazioni della vita? Bene che vada, il diretto interessato, anche il più precoce, lo capirà solo dopo un bel po’ di anni. Ecco perché viene sempre da predicare calma: genitori, se non siete sicuri al 100% della forza caratteriale di vostro figlio, aspettate almeno fino ai 14 anni, quando arriva il salto nell’agonismo e le partite cominciano a contare almeno un po’ di più. A quel punto potrebbe essere davvero il momento giusto per fare delle valutazioni più approfondite e non rischiare di rovinare l’infanzia e l’adolescenza al vostro bambino.