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Il Pungiglione

Quando ci si vergognava a vincere con un calcio di rigore

Il calcio, anche e soprattutto quello giovanile, è diventato uno spettacolo di emozioni esagerate

Quando ci si vergognava a vincere con un calcio di rigore

Il PUNGIGLIONE • Alfredo Di Stefano, quando i campioni si vergognavano a vincere con un calcio di rigore

Alfredo Di Stefano, detto la Saeta Rubia  (freccia bionda), vincitore di 5 Coppe dei Campioni, 8 campionati spagnoli e 1 Coppa Intercontinentale tra gli altri trofei, 2 volte Pallone d'oro nel 1957 e 1959, è l'ispiratore della mia riflessione critica.
Parlo di Di Stefano e del suo percorso al Real Madrid, dove insieme a Puskas e Gento ha segnato un'epoca, con l'obiettivo di mettere a confronto un calcio d'altri tempi con il nostro quello della new era. In quel periodo i giocatori più famosi erano noti per la loro classe, la loro tecnica e la loro sportività. La loro reazione dopo aver segnato un rigore ed aver vinto una partita, mostrava vergogna, imbarazzo, mortificazione nei confronti dell'avversario, un esempio di come il calcio fosse vissuto con un certo senso dell'onore e della cavalleria. Era come se considerassero il rigore come l'occasione meno gloriosa per vincere, così facendo educavano anche il pubblico ad applaudire i perdenti sfortunati, dando loro un esempio di sportività. Era un'epoca in cui il fair play e la correttezza erano valori fondamentali nel calcio.
Oggi la bellezza del calcio è solo il risultato, dai più piccoli alle prime squadre. Ammettere di essere più scarsi ed aver vinto non appartiene ai nostri presidenti, allenatori e tifosi i quali si attaccano alle solite frasi: abbiamo avuto cuore, ognuno di noi si è sacrificato per se stesso e per i compagni, abbiamo lavorato tanto in settimana, abbiamo avuto solo un'occasione, però l'abbiamo messa dentro. Mai uno, dico uno, che dichiari apertamente: abbiamo rubato la partita. Addirittura si vince un campionato italiano per un rigore calciato a fine partita da un'altra squadra, su un altro campo, che determina la perdita di due punti da parte della squadra che l’avrebbe altrimenti vinto, consegnando così lo scudetto a chi lo avrebbe perso. Un leggero battito d'ali di un gomito ha decretato un rigore piovuto dal nulla, senza alcun merito, che ha cambiato le sorti delle due squadre in vetta alla classifica. Se quel penality l'avesse  calciato Alfredo Di Stefano, dopo averlo realizzato avrebbe come minimo aperto le braccia sconsolato in segno di scuse, e probabilmente avrebbe dato la mano al portiere. Qualcuno ha ringraziato? No! La squadra che vince fa la storia, l'altra la racconta, come ha detto il suo allenatore.
Questa febbre del risultato purtroppo colpisce anche i nostri giovani delle Scuole Calcio e Settori Giovanili dilettantistici, che abitualmente seguo ogni fine settimana, ed è in questo particolare periodo che si lotta di più, ci sono i campionati di categoria da vincere, per poi accedere alle finali Regionali, con l'aspettativa di arrivare a quelle Nazionali, insomma si cerca di raccogliere quello che si è seminato: tutto bene, tutto giusto, per carità. Ma è proprio qui che il mio riferimento particolare al periodo dei Di Stefano, Gento, e Puskas voleva arrivare: il fair play oggi, non sanno neanche dove alloggi, l'imitazione dei calciatori grandi e del loro modo di comportarsi è perfetta, a volte anche la supera, in queste gare decisive si vede il meglio della non sportività in campo, e in tribuna dove le quattro categorie di genitori da me citate in un altro articolo ci sono tutte e precisamente: i genitori elicottero, genitori spazzaneve, i genitori tigre e genitori sommergibili. I migliori, quelli che non si vedono mai, penso ci siano anche loro, magari timidamente in disparte.
Dall’Under 13 all’Under 19 il comportamento dei ragazzi e degli spettatori (genitori) è uguale in ogni campo dove vengono giocate gare importanti di fine stagione. Ogni rete segnata diventa un'occasione per una grande ammucchiata di abbracci con panchinari, dirigenti che si lanciano in campo come se fossero stati loro a segnare, anche il guardalinee di quella squadra lascia la sua bandiera a terra e si unisce alla mischia umana. Questa celebrazione del gol è diventata un rituale sacro su tutti i campi, in barba al regolamento FIGC e della FIFA (art.64 e art. 12) che non permette ai giocatori in panchina, ai dirigenti o ad altri membri dello staff di entrare in campo e festeggiare un gol. È diventato uno spettacolo avvilente vedere i giovani giocatori imitare i professionisti dopo una sconfitta riversandosi a terra in lacrime invece di stringere la mano agli avversari, e i genitori li acclamano e si uniscono alla disperazione. Per i vincenti la scena è ancora più sconcertante, i giocatori allineati a metà campo si lanciano verso le reti di protezione aggredendole, urlando e festeggiando con i genitori in modo eccessivo. È triste vedere come il calcio giovanile sia diventato uno spettacolo di emozioni esagerate. Perdere, piangere ed essere consolati non è da veri sportivi, come non è da veri sportivi vincere, esagerare nella festa, e non stringere la mano ad avversari e arbitro (chiamato ormai da tutti "direttore" prima dei classici insulti).
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