FROSINONE SERIE B - Filippo Grosso, centrocampista classe 2006, è approdato al Frosinone dopo anni nelle giovanili della Juventus
In pochi avrebbero immaginato che il primo vero squillo di Filippo Grosso tra i Professionisti sarebbe arrivato così, deciso e pulito, come un interno destro al momento giusto. Eppure, quando il weekend scorso il tecnico Massimiliano Alvini lo ha messo dentro dall’inizio contro il Mantova, il giovane centrocampista del Frosinone, figlio dell’ex esterno Campione del Mondo nel 2006, ha fatto quello che si chiede ai giocatori che vogliono prendersi il posto: si è inserito, ha seguito l’azione, ha letto i tempi come un regista che conosce la partitura. Al 22’ del primo tempo, imbucata perfetta, assist di Koutsoupias e palla in rete per lo 0-3 momentaneo. Sì, proprio lui, Grosso: primo sigillo tra i grandi in un 5-1 che ha il profumo delle svolte.
IL PRIMO COLPO DA GRANDE C’è un gol e c’è un percorso. La rete che sblocca una diga interiore e quella sensazione che certe serate possano cambiare il corso di una carriera. Filippo Grosso ha avuto la luce addosso nel momento giusto. Non una zampata casuale, ma la fotografia del suo modo di stare in campo: gioco incisivo, dinamismo costante, capacità di strappare e di legare, di arrivare a rimorchio e di finalizzare con lucidità. Quell’azione, chiusa al 22’ del primo tempo su invito di Koutsoupias, è il compendio del suo repertorio. E in un 5-1 ampio e convincente, la sua firma racconta il passaggio dall’attesa all’appartenenza.
DAL VIVAIO ALLA RIBALTA Le radici contano, eccome. Grosso è cresciuto nelle giovanili, passando tra Juventus e poi Frosinone: pagine di lavoro quotidiano, partite nella Primavera, qualche assaggio con i grandi. La trafila classica, certo, ma non scontata. Perché non basta esserci, bisogna farsi notare. E lui lo ha fatto conquistando pezzi di fiducia, senza saltare le tappe e senza perdere il filo. Proprio in Coppa Italia, contro il Cagliari, era stato schierato titolare e aveva offerto una prestazione positiva: un segnale, un semaforo verde sul suo sentiero. Da lì, l’idea di potergli dare spazio si è trasformata in una decisione. E la decisione, in campo, in un gol.
L’IMPRONTA DI ALVINI E IL PESO DELLA FIDUCIA Quante volte ce lo chiediamo? A cosa serve la fiducia dell’allenatore se non a trasformarsi in responsabilità buona? Alvini l’ha messo dentro dal primo minuto, contro il Mantova, e il ragazzo ha risposto presente. È la dinamica più antica del calcio: la chance arriva, tu devi essere pronto. Grosso non l’ha aspettata col fiato sospeso, l’ha costruita step dopo step: ottima condizione, idee chiare, applicazione tattica. In una parola, affidabilità. La rete è la naturale conseguenza di questo percorso. Un colpo che dice «ci sono», una giocata che pesa oltre il tabellino e fa classifica nelle gerarchie.
UN COGNOME CHE PESA DOLCE Fabio Grosso. Per l’Italia quel nome è una molla emotiva, un flash di memoria che scatta a ritmo di coriandoli e brividi: 2006, la corsa sulla fascia, il sinistro alla Germania che squarcia una semifinale al cardiopalma, e poi il calcio di rigore decisivo in finale contro la Francia. Due istantanee incastonate nella stessa estate che hanno consegnato agli azzurri il quarto titolo mondiale. Da allora, la parola Grosso non è solo un cognome: è un’eco di trionfo, un capitolo di storia, un gol che rimbalza ancora nella testa di un Paese intero. E oggi quel cognome torna a risuonare, ma in un altro tempo e con un altro protagonista: Filippo.
FROSINONE, PIAZZA DI FAMIGLIA Il bello delle storie di pallone è quando il destino si diverte a mettere i segnalibri nei posti giusti. Filippo ha iniziato a farlo in una piazza molto cara al papà: Frosinone. Non un luogo qualunque, ma la città dove Fabio, oggi attuale allenatore del Sassuolo, ha centrato la promozione nella stagione 2022-2023. Cos’è se non una piccola traiettoria familiare, una freccia che rimbalza da padre a figlio lasciando scintille? Frosinone diventa così più di un campo: diventa simbolo, casa calcistica condivisa, terreno dove le radici si intrecciano e il pallone racconta la stessa lingua, generazione dopo generazione.
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