Lutto
14 Novembre 2025
Una fila di tifosi in verde, sulla gradinata dell’Hernando Siles, conserva ancora il ricordo di una notte d’aria rarefatta e di un urlo tardivo, liberatorio. Era il 25 luglio 1993: contro ogni logica la Bolivia piegava il Brasile per 2-0 e un tecnico basco, baffi folti e sguardo ostinato, ridisegnava i confini del possibile. Oggi, quel tecnico non c’è più. Xabier Azkargorta, il “Bigotón”, è morto a 72 anni a Santa Cruz de la Sierra il 14 novembre 2025, dopo problemi cardiaci che lo affliggevano da tempo. L’annuncio è stato dato dall’Espanyol, club che lo lanciò giovanissimo: alla guida dei catalani tra 1983 e 1986, firmò 134 panchine, settimo di sempre nella storia blanquiazul. A 29 anni debuttò in Primera Division, il più giovane della categoria. È il punto di partenza di una traiettoria che in Sudamerica sarebbe diventata epica.
Prima dei baffi, del soprannome e dei titoli, c’era il ragazzo di Azpeitia che sognava di giocare e poi di allenare. Cresciuto tra i settori giovanili della Real Sociedad e dell’Athletic, la sua carriera da attaccante fu breve: una seria lesione al ginocchio lo spinse verso la panchina. Le cronache biografiche ricordano anche gli studi di Medicina, completati a Barcellona, a testimonianza di un profilo curioso e “scientifico” del calcio, fatto di metodo e dettagli.
Nel 1982 l’approdo al Gimnastic de Tarragona in terza serie, un anno dopo il salto sorprendente: Espanyol. È qui che Azkargorta compone la sua prima idea compiuta di squadra. Punta su cantera, organizzazione e lettura dell’avversario, valorizza giovani come Miquel Soler e costruisce continuità: 134 partite ufficiali in tre stagioni sono molte per gli standard instabili delle panchine spagnole. A 29 anni, il tecnico basco è già un piccolo caso: precocissimo, metodico, più allenatore “di campo” che gestore, con una reputazione in crescita. Dopo Barcellona, ecco Real Valladolid, Sevilla e Tenerife fino al 1991: esperienze utili a rifinire un’idea calcistica che diventerà marchio in altura.
Nel 1993 arriva la chiamata che cambia la sua vita: la nazionale boliviana. La Bolivia non si qualificava a un Mondiale per merito sportivo dal 1950 e sembrava condannata a un ruolo marginale in CONMEBOL. Azkargorta capisce che il primo terreno da fertilizzare non è tattico, è mentale: lavorare sull’autostima del calciatore boliviano, integrare i talenti formati dall’Academia Tahuichi Aguilera e piegare l’altura non in alibi, ma in strumento. L’idea tattica più riconoscibile è una struttura elastica con tre difensori centrali e catene laterali pronte ad allungare o accorciare, per poi colpire con il talento di Marco “El Diablo” Etcheverry, Erwin Sanchez e un gruppo orgogliosamente “di casa”.
Il 25 luglio 1993 resta un monumento: Bolivia–Brasile 2-0 a La Paz, la prima sconfitta del Brasile in tutta la sua storia di qualificazioni mondiali. Succede negli ultimi tre minuti: prima Etcheverry rompe l’equilibrio, poi Alvaro Pena chiude la partita. È il colpo di scena che alimenta un intero ciclo: la “Verde” vincerà tutte le gare casalinghe e si qualificherà a USA 1994 con il secondo posto nel girone, dietro proprio al Brasile.
Il 17 giugno 1994, a Chicago, la Bolivia di Azkargorta inaugura il Mondiale contro i campioni in carica della Germania. Finirà con una sconfitta di misura, e il cammino si fermerà ai gironi, ma l’impressione lasciata dalla nazionale andina – densità, personalità, coesione – resta. La Bolivia torna al Mondiale dopo 44 anni e lo fa per via diretta, non su invito: è il dato che definisce la grandezza del Bigotón nel Paese che sceglierà come seconda casa.
Sulla scia dell’impresa, nel 1995 Azkargorta accetta la panchina del Cile. È un contesto diverso: meno tempo per lavorare sull’identità, più urgenza di risultati. Guida la “Roja” in Copa América 1995 e nelle qualificazioni verso Francia 1998, ma l’avventura si interrompe nel 1996: subentra Nelson Acosta, che porterà poi il Cile al Mondiale. Lo stesso Azkargorta parlerà spesso della difficoltà di trapiantare in un’altra cultura calcistica, con tempi compressi, quel processo profondo che in Bolivia aveva avuto un anno pieno per sedimentare.
L’allenatore basco non è però figura da sedentarietà. Nel 1997-1998 guida gli Yokohama F. Marinos in J.League, portando metodi europei e una cura maniacale per le routine d’allenamento. Nel 2005 l’esperienza ai Chivas de Guadalajara in Messico, altra piazza esigente, altro laboratorio. In mezzo – tra 2003 e 2005 – l’incarico da direttore delle Scuole Sportive Internazionali del Real Madrid, segno della stima trasversale per il suo modo di formare calciatori e allenatori. È un pezzo meno raccontato del suo curriculum, ma centrale per capire l’attenzione “formativa” che lo ha sempre distinto.
La storia con la Bolivia non finisce a USA ’94. Nel 2012 Azkargorta torna sulla panchina della nazionale fino al 2014, poi allena club simbolo del Paese: Bolívar, Oriente Petrolero, Sport Boys Warnes e, nel 2020, l’Atlético Palmaflor. Con il Bolívar firma una cavalcata significativa in Copa Libertadores 2014, fino alla semifinale: un traguardo che riaccende l’immaginario collettivo. Sono anni in cui “el Bigotón” diventa definitivamente patrimonio affettivo boliviano: partecipa alla vita calcistica, collabora in ambito istituzionale e, quando i problemi cardiaci si aggravano, resta comunque nella comunità di Santa Cruz che lo accoglie e lo saluta come uno di casa.
Venerdì 14 novembre 2025, la nota dell’Espanyol su X annuncia la morte di Xabier Azkargorta. Parole semplici, un numero che pesa – 134 panchine – e il riconoscimento di una storia condivisa. Dalla Spagna arrivano i messaggi di Sevilla, Tenerife, Real Valladolid; dalla Bolivia l’abbraccio di Oriente Petrolero, la memoria del Bolívar, il cordoglio di una nazione che gli deve il ricordo più luminoso del proprio calcio. Anche il Real Madrid pubblica un comunicato ufficiale, ricordando il suo ruolo nelle scuole internazionali del club. In Cile i media ne ricostruiscono con equilibrio luci e ombre, riconoscendo comunque la statura di un allenatore che ha segnato un’epoca.
Che cosa lascia, davvero, Xabier Azkargorta? Innanzitutto un precedente. La prova tangibile che anche in un ecosistema competitivo e asimmetrico come il calcio sudamericano si può alzare l’asticella con metodo, coraggio e visione. Quel 2-0 al Brasile non è un miracolo isolato: è la punta visibile di una trasformazione che parte dai club, passa per la selezione, e si radica in una cultura. In Bolivia, la vittoria del 1993 e la qualificazione a USA 1994 hanno agito come un vaccino contro il fatalismo: da allora la “Verde” ha saputo concedersi altre notti di prestigio, inclusa una nuova vittoria sul Brasile nelle qualificazioni più recenti, segno che certe credenze – quando attecchiscono – non dissolvono rapidamente.
C’è poi il lascito umano. Il “Bigotón” capiva le persone. Molti ex giocatori ricordano un allenatore capace di ascoltare, di trovare il linguaggio giusto per ognuno, di pretendere senza umiliare. Da Barcellona a La Paz, passando per Santiago, Yokohama e Guadalajara, il filo conduttore resta quello: prendere i contesti come sono e provare a migliorarli con le persone che li abitano. Anche a costo di scontrarsi con limiti e fallimenti.
Sarebbe fin troppo facile chiudere con la parola “leggenda”. Meglio dire che Azkargorta ha lasciato tracce verificabili: risultati, metodi, persone cresciute. E che il suo calcio, spesso raccontato in superficie attraverso un soprannome, in realtà era un’idea paziente: allenare le convinzioni prima dei piedi. È per questo che oggi, a Barcellona come a La Paz, il suo nome suona famigliare. Ed è per questo che la sua scomparsa non è solo una notizia di cronaca, ma un promemoria di ciò che il calcio può fare quando trova qualcuno disposto a crederci davvero.