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Folle aggredisce 15enne che indossa giubbotto e cappello della sua squadra nella città rivale, ragazzo in Ospedale

Il giovane tesserato per l'Under 15 bianconera e il fratello di 12 anni sono stati colpiti e insultati, condanna unanime dei club

SAN BENEDETTO DEL TRONTO - 15ENNE DELL'ASCOLI AGGREDITO

La scena è breve e spiazzante: un pomeriggio qualunque davanti a un negozio di famiglia, una giacca e un cappellino con il simbolo dell’Ascoli Calcio, un ragazzo di 15 anni che gioca nell’Under 15 bianconera, il fratellino di 12, e un giovane che si avvicina, pretende quei capi, poi colpisce. È accaduto a San Benedetto del Tronto, nella frazione di Porto d’Ascoli, dove la madre dei due ragazzi gestisce un’attività. La famiglia chiama il 112, annota la targa dell’auto con cui l’aggressore si allontana. I due minori vengono portati al Pronto Soccorso del Madonna del Soccorso. Sono stati dimessi in nottata. Un fatto che interroga non solo una città divisa da una storica rivalità calcistica, ma l’intero sistema sportivo giovanile e il suo rapporto con il tifo adulto.

LE PRIME RICOSTRUZIONI
Secondo le prime ricostruzioni, il 15enne del posto, tesserato per le giovanili dell'Ascoli, indossava la giacca e il cappellino di dotazione societaria quando un giovane, descritto come sui 23 anni, lo avrebbe afferrato per il giubbotto intimandogli di consegnargli quei capi. All’alt del ragazzo, sarebbero volati insulti e percosse: un calcio al ginocchio già infortunato del 15enne e un colpo sotto lo sterno al fratello 12enne. Il ginocchio del 15enne, già lesionato, è stato la zona bersaglio: il ragazzo quel giorno non aveva giocato con i compagni, in programma c’era Ascoli-Pontedera per la categoria, proprio per via dell’infortunio. Il fratello ha riportato una lieve lesione costale. Entrambi sono stati dimessi nella notte, con indicazione a ulteriori accertamenti.

IL CONTESTO
La famiglia vive a Martinsicuro e il ragazzo ha amici a San Benedetto, simpatizza sia per l’Ascoli sia per la Sambenedettese. Un modo di vivere il calcio più vicino alla passione che all’appartenenza militante, andato in frantumi in pochi minuti di violenza. La società Ascoli Calcio 1898 FC ha espresso «massima solidarietà» al proprio giovane tesserato, definendo la vicenda una “vile aggressione” e ribadendo che simili atti non hanno nulla a che vedere con il calcio che il club promuove. Parole nette sono arrivate anche dalla U.S. Sambenedettese, che ha condannato con fermezza l’accaduto e ha manifestato vicinanza ai due ragazzi e alle loro famiglie, richiamando i valori del rispetto e della sana rivalità.

UN TERRITORIO DIVISO
La rivalità tra Ascoli e Sambenedettese è tra le più antiche delle Marche. Un dato recente racconta il clima intorno alle partite: il 26 ottobre 2025, per l’incontro di campionato al «Cino e Lillo Del Duca», il Comune di Ascoli Piceno ha varato un’apposita ordinanza di regolamentazione della viabilità, a testimonianza dell’attenzione istituzionale su una sfida in grado di mobilitare migliaia di persone. La gara è tornata dopo quasi  40 anni di assenza dai calendari ufficiali, rendendo evidente quanto le appartenenze locali possano riaccendersi. Pur senza stabilire un nesso diretto con l’episodio di Porto d’Ascoli, questa cornice aiuta a comprendere il valore simbolico dei colori in gioco.

LINGUAGGIO E SIMBOLI
In questa storia colpisce la frase attribuita all’aggressore: «Così in giro non ci vai quaggiù». È un linguaggio da sconfinamento territoriale, un lessico di appartenenza che pretende di zittire l’altro. Se parole come queste passano coi minori, il danno non è solo fisico: è culturale. A contrastarlo, ogni attore del sistema calcio, dai settori giovanili alle curve, fino ai media, è chiamato a fare meglio: raccontare la rivalità senza stereotipi, promuovere iniziative miste tra club, dare spazio a testimonianze che mostrino come il calcio di base spesso sia luogo di amicizie oltre le maglie. Le parole contano: e questa volta lo hanno dimostrato nel modo peggiore.

CONCLUSIONE: LA MISURA DEL TERRITORIO
Una città si misura anche dal modo in cui difende i suoi minori e tratta i simboli dell’altro. Il caso di Porto d’Ascoli racconta una verità semplice: la maglia e il cappellino sono segni d’identità, non lasciapassare per la violenza. Le istituzioni, le società sportive e la comunità hanno già dato segnali nella direzione giusta: condanna, solidarietà, collaborazione con gli inquirenti. Resta il lavoro, più lento ma decisivo, di educazione. Perché un 15enne con indosso la giacca della propria squadra dovrebbe poter attraversare qualsiasi quartiere con la stessa serenità con cui entra in campo la domenica mattina. E questo, al di là della cronaca, è l’unico campionato che vale davvero la pena vincere.

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