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Lutto

Dopo 60 anni nella stessa squadra ci lascia un mito del calcio dei bei tempi, curò i muscoli di Paolo Rossi e Materazzi e visse notti europee

Una vita con la stessa divisa indosso e con anche 12 campionati vinti, fino all’ultimo è rimasto il primo tifoso del suo club

PERUGIA SERIE C - RENZO LUCHINI

Renzo Luchini aveva 80 anni ed era arrivato al Grifo nel 1966 (foto FB A.C. Perugia)

La stanza è quella dei massaggi, sotto la curva. Un lettino, l’odore di canfora, il brusio di chi sta per entrare in campo. Sulla parete una foto sbiadita: il Perugia degli anni Settanta, maglie pesanti e sguardi fieri. In mezzo, un uomo con il camice bianco e i baffi, le mani grandi di chi aggiusta i muscoli e raddrizza i pensieri. È Renzo Luchini. Cinquant’anni dopo è ancora lì, fino a quando il tempo ha detto basta. Se n’è andato a 80 anni, lasciando un vuoto che non misura solo le partite: misura abbracci, confidenze, silenzi prima del fischio d’inizio. Perché in una società di calcio c’è chi segna, chi allena, chi decide, e c’è chi tiene insieme tutto il resto. Renzo era questo. E Perugia lo piange come si piange un familiare.

UN FILO BIANCOROSSO LUNGO 60 ANNI
Entrò al Perugia nel 1966, quando in panchina sedeva Zeffiro Furiassi. Era l’inizio di una fedeltà che, a conti fatti, coincide con la modernità del club: promozioni, cadute, rinascite. In mezzo 12 campionati vinti, una Coppa Intertoto nel 2003 e una Supercoppa di Lega nel 2014: cifre che, per un massaggiatore, raccontano meglio di qualunque curriculum il ruolo di «cerniera» tra campo e spogliatoio, tra generazioni che cambiano e un’identità che resta. Nato a Brufa, frazione di Torgiano, Luchini non cercò mai il proscenio. Preferì l’ombra fertile degli spogliatoi, dove si costruiscono le squadre vere. Il suo regno erano la sala massaggi e il corridoio che porta al campo: chilometri di bendaggi, parole giuste, gesti scaramantici ripetuti «se le cose vanno bene, durante tutta la stagione». Un mestiere antico, quasi artigiano, che lui ha attualizzato con studi, curiosità e una devozione che agli atleti piaceva perché non era servile: era parte del patto. «Ho i grifetti rossi nel sangue», amava dire. E non era un modo di dire.

IL TESTIMONE DELLA STORIA: LE MANI SU RENATO CURI
Non tutte le pagine di una storia calcistica profumano di festa. Il 30 ottobre 1977, allo stadio che porterà il suo nome, Renato Curi crolla in campo. Le prime mani che si chinano su di lui sono quelle di Renzo Luchini. È un ricordo che Perugia ha scolpito nella memoria collettiva e che dice di che pasta fosse Renzo: presenza, prontezza, umanità. Non un eroe, ma un professionista totale. Da allora, quel luogo, il «Renato Curi», è stato per lui casa e altare, con riti discreti e la stessa concentrazione di sempre.

LE STAGIONI D'ORO: L'INTERTOTO DEL 2003
Nell’estate 2003, il Perugia di Serse Cosmi mette in bacheca la Coppa Intertoto, manifestazione europea estive che metteva in palio posti per disputare l'allora Coppa Uefa. All’andata al «Curi» basta un guizzo di Jay Bothroyd per piegare il Wolfsburg (1-0); al ritorno in Germania gli umbri sigillano l’impresa con un 2-0 firmato Giovanni Tedesco (attuale allenatore del Grifo in Serie C) e Emanuele Berrettoni. Il dato che fa scuola: l’intero cammino europeo senza subire nemmeno un gol. Luchini è lì, come sempre, un passo indietro ma dentro la foto: l’uomo del dettaglio che prepara e rassicura, mentre la squadra scrive una delle notti più europee della sua storia.

SESSANT'ANNI DI LAVORO QUOTIDIANO
Sessant’anni sono più di una carriera: sono una scelta di vita. Luchini ha attraversato presidenti, direttori sportivi, allenatori e calciatori come si attraversano le stagioni: senza mai cambiare il passo. La sua «giornata tipo» iniziava molto prima dell’allenamento e finiva quando l’ultimo spogliatoio tornava in ordine. Conoscenza del corpo, ascolto, capacità di leggere l’umore: la triade di un mestiere che richiede fiducia, prima ancora che competenza tecnica. Non è un caso che chi ha vestito il biancorosso in epoche diverse lo citi sempre come «uno di famiglia». Le ultime ore della sua malattia sono state accompagnate da uno striscione della Curva Nord Mimmo Pucciarini: «Forza Renzo». Un gesto semplice, coerente con una relazione costruita a piccoli mattoni, giorno dopo giorno.

GENERAZIONI DI TECNICI E GIOCATORI
Dal Perugia «invincibile» del 1978-79 di Paolo Rossi all’era Gaucci, dal talento di Fabrizio Miccoli alla completezza di Fabio Grosso, passando per il «muro» Marco Materazzi, per i polmoni di Giovanni Tedesco e le sgroppate di Zé Maria: il filo rosso è Renzo Luchini. I racconti degli ex dicono di un professionista che sapeva alternare fermezza e ironia, che non spaventava ma non ammetteva superficialità. Era il primo confidente in caso di acciacchi e il primo a lodare quando qualcuno stringeva i denti senza alibi. Un custode della cultura del lavoro: la disciplina come valore, la cura come linguaggio, la memoria come bussola.

L'ULTIMO TRATTO: GLI 80 ANNI FESTEGGIATI A OTTOBRE
Il 25 ottobre 2025 il Perugia gli aveva fatto gli auguri pubblici per gli 80 anni: «Da sessant’anni al fianco del Grifo, con la stessa passione del primo giorno». Un mese e poco più dopo, l’3 dicembre 2025, la città ha saputo che Renzo «non ce l’ha fatta». Il tempo tra quei due momenti basterebbe da solo a raccontare la misura della sua popolarità: messaggi, ricordi, foto di archivio, testimonianze di ex giocatori e di giornalisti che con lui hanno condiviso la quotidianità. Un addio sobrio, come era lui. Ma capace di riempire una città. E resta una verità semplice: che il calcio migliore si gioca spesso lontano dalle telecamere, nelle stanze in cui un professionista mette una mano sulla spalla e dice: «Domani va meglio».

UN ULTIMO GESTO, COME IN PANCHINA
C’è un’immagine, tra le tante, che aiuta a chiudere il cerchio. Nel dicembre 2020, durante l’ultimo saluto a Paolo Rossi al «Curi», fu Renzo Luchini a sistemare sulla bara una maglia numero 9 biancorossa, accanto alla sciarpa. Un gesto piccolo e gigantesco, da uomo di spogliatoio che conosce il peso dei simboli. È lo stesso pudore con cui oggi Perugia saluta lui: un grazie sussurrato, la mano sul cuore, e il passaggio di testimone a chi continuerà a prendersi cura del corpo, e dell’anima, del Grifo. A Perugia, d’ora in avanti, quando qualcuno entrerà nella sala massaggi, poggerà lo sguardo su quella foto sbiadita. Vedrà un uomo con le mani grandi. Capirà che certe presenze non tramontano: diventano metodo, memoria, stile. Ed è il patrimonio più prezioso che il Grifo potesse ereditare.

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