Serie A
18 Dicembre 2025
Eugenio Perico, classe 1951, ha concluso la propria carriera con l'Atalanta in Serie A nella stagione 1986-1987
Un pomeriggio di primavera, nel 1985. Al vecchio Comunale di Bergamo, l’Atalanta ferma sull’1-1 il Verona che di lì a ore si sarebbe cucito sul petto lo scudetto. A segnare per i nerazzurri non è un bomber, ma un difensore dal passo elastico e dalla lettura lucida: Eugenio Perico. La rete è semplice, il gesto elementare, l’effetto duraturo: in curva resta l’idea di un calcio che non ha bisogno di gesti plateali per entrare nella memoria. Da mercoledì 17 dicembre 2025, Perico non c’è più. Se n’è andato a 74 anni dopo una lunga battaglia con una malattia neurodegenerativa, lasciando dietro di sé numeri, promozioni, e soprattutto ragazzi che lo chiamavano «mister» con rispetto genuino.
UN PROFILO ESSENZIALE E INCONFONDIBILE
Il suo biglietto da visita è intrecciato con due città e due maglie: Bergamo e Ascoli, Atalanta e Ascoli Calcio. Tre promozioni in Serie A scandiscono la sua carriera; un record, 236 presenze tra Serie A e Serie B con l’Ascoli, la mette in cornice. Ma dentro quei numeri c’è molto altro: la cultura della fatica, l’idea che il difendere sia anche un modo di prendersi cura degli altri, la vocazione all’educazione che lo accompagnerà oltre l’ultima partita. Storia di un calcio d'altri tempi nel quale le soddisfazioni dovevano essere sudate, ben diversamente da quello attuale dove spesso tra i Professionisti nei vari organici della squadre trovano posto giocatori che non dimostrano particolare merito.
LE ORIGINI E L'ESORDIO: CURNO E LA DEA
Nato a Curno il 15 ottobre 1951, Eugenio Perico cresce calcisticamente nell’Atalanta. È un prodotto di un settore giovanile che, in quegli anni, fa scuola. Con la prima squadra vive la sua prima scalata: 1970-71, l’Atalanta torna in Serie A e il giovane difensore respira da vicino il profumo del grande calcio. Terzino capace di stringere la marcatura o alzare la corsa sulla fascia, Perico interpreta un ruolo con misura: pochi fronzoli, tanta resa. Dopo quell’annata, per farsi le ossa, transita in Serie C con Spezia (1971-72) e Cremonese (1972-73): tappe formative, minuti veri, campi complicati che tempiano il carattere.
GLI ANNI ASCOLANI: PROMOZIONI E RECORD
Nel 1973 la svolta che orienta una vita sportiva: l’approdo all’Ascoli di Costantino Rozzi, piazza ambiziosa che si prepara al salto di qualità. La promozione arriva subito, nel 1973-74: Perico si ritaglia il ruolo del professionista affidabile, quello che «c’è sempre» e che non tradisce. In bianconero rimarrà 8 stagioni, mettendo insieme il suo capolavoro aritmetico: 236 presenze complessive tra A e B, un primato che ancora oggi resiste. Segna poco, è un difensore, ma segna in modo utile, come sanno fare i giocatori che scelgono bene il tempo. Emblematica la stagione 1979-80: l’Ascoli tocca il cielo con un clamoroso 5° posto in Serie A, il miglior piazzamento della sua storia. In quella squadra, Perico è una cerniera silenziosa: scivola, accorcia, assorbe l’urto, si offre in appoggio. Il pubblico del Del Duca lo adotta perché ne riconosce l’essenza: un calciatore che non si crede altro che calciatore, e che proprio per questo diventa, paradossalmente, un simbolo. Tra il 1973 e il 1981 la città delle cento torri lo vede crescere, maturare, diventare padre e, soprattutto, restare fedele a un’idea di squadra come comunità.
IL RITORNO A CASA, LA SECONDA VITA ALL'ATALANTA
Nell’estate 1981 Perico rientra a Bergamo. L’Atalanta è reduce da anni altalenanti e deve ricostruire. È in Serie C1 quando lui riabbraccia la maglia nerazzurra. Il percorso è doppio, come una sequenza di gradini: 1981-82 promozione dalla C1 alla B; qualche stagione di assestamento; quindi, nel 1983-84, il salto dalla Serie B alla Serie A. Perico è protagonista di questa risalita a tappe: ancora una volta, una promozione in A, la terza della sua carriera. C’è un’immagine, oltre a quella del gol al Verona, che chiude la sua carriera col sigillo dell’eleganza: 1986-87, finale di Coppa Italia. L’Atalanta perde 0-1 contro il Napoli di un calcio che sta cambiando pelle e che in quei tempi vede protagonista assoluto Diego Armando Maradona. Perico subentra nel finale: non è il protagonista dei titoli, ma c’è, come sempre. È l’ultima pagina da calciatore professionista, scritta senza clamori, ma consegnata a una memoria che non dimentica chi ha messo mattoni quando l’edificio aveva bisogno di fondamenta.
IL TECNICO EDUCATORE: 4 SCUDETTI NEI GIOVANISSIMI
Appese le scarpe al chiodo, Eugenio Perico resta dove si sente a casa: nel mondo dell’Atalanta. Tra fine anni Novanta e primo decennio Duemila guida le formazioni del vivaio, in particolare i Giovanissimi Nazionali. Con loro vince 4 scudetti: traguardi che certificano il lavoro sul campo, certo, ma soprattutto un metodo educativo. Al fianco di figure come Mino Favini e Lucia Castelli, Perico porta avanti un’idea di settore giovanile come scuola di valori oltre che di tecnica: rispetto, responsabilità, autonomia, capacità di vivere l’errore come tappa e non come stigma. In un calcio che spesso scambia la precocità con il talento, l’approccio di Perico è controcorrente e, proprio per questo, attualissimo: «prima le persone, poi i calciatori». Lo confermano i ragazzi diventati uomini, tanti dei quali lo ricordano per il gesto in più fatto fuori dall’allenamento, per la telefonata dopo un infortunio, per il consiglio dato al momento giusto. C’è anche un filo affettivo che lo lega alla famiglia: il figlio Gabriele, classe 1984, sarà un professionista di buon livello, spesso nel ruolo del padre, a chiudere idealmente il cerchio. A volte il calcio lascia in eredità monumenti, altre volte consuetudini virtuose. Eugenio Perico appartiene alla seconda categoria: la sua memoria non si misura in statue, ma in comportamenti. È più difficile da fotografare, ma dura di più.