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Seconda Categoria

Dall'incontro col Trap al debutto del figlio da avversario: mille esperienze per dare la scossa

Il messaggio: «Il calcio vero è quello dei dilettanti, ma se vuole scimmiottare il professionismo non si cresce su un piano sportivo»

Chiavegati Usmate

Roberto Chiavegati, l'allenatore della Nuova Usmate

Il colpaccio di Villasanta fa sì che Roberto Chiavegati si proponga come uno degli uomini del momento del Girone V: prima che l'esperto allenatore commenti la sterzata data a un sodalizio che ora si gioca la salvezza diretta, cediamo la parola al ds della Nuova Usmate Carlo Santini: «Dopo cinque sconfitte di fila cercavamo una scossa, sapendo che non sempre porta a risultati: Roberto ha una storia che è una garanzia, ma soprattutto è un uomo di spessore; lo comprova com'è entrato nello spogliatoio, con decisione pari a rispetto. Iniziamo un percorso: il gruppo ha valore e ha ritrovato autostima. Priorità alla salvezza, ma alla Nuova Usmate cerchiamo, a partire dalle Giovanili, qualità e continuità tecnica: mister Magni è rimasto 5 anni. Mercoledì hanno giocato 5 Juniores, io stesso esordii alla DiPo con Roberto».

Come nasce la tua passione per il calcio, Roberto?
«Il papà di un compagno nelle elementari allenava a Biassono: ho iniziato lì. Ho poi militato 8 anni nella Pro Sesto che viveva gli anni d'oro: amavo Cruijff, ero un tornante destro veloce, non a caso raggiunsi le finali nazionali studentesche sui 100 metri. Mi feci le ossa a Vedano in Prima e poi a Bovisio Masciago in Promozione: purtroppo mi ruppi i legamenti del ginocchio e il presidente Piero Nardi mi propose un lavoro come disegnatore, essendo perito industriale».

Tornasti a giocare?
«Sì, per recuperare la condizione un collega mi indirizzò alla Trieste Calcio di Limbiate e iniziai ad allenare. L'anno dopo mi chiamò la Giovanile Senago (Juniores Provinciale), era l'inizio degli Anni 90. E qua ho un aneddoto: preparai per un anno i ragazzi al quadrangolare di prestigio con Monza, Novara e Pro Sesto, ma la società voleva poi testare nuove leve. Mi opposi a questa scelta e schierai solo i miei ragazzi: 30 anni dopo un fiorista milanese mi riconobbe ricordandosi l'episodio».

Raccontaci qualche tappa della tua carriera.
«Corso FIGC con l'Aurora Desio (Allievi Regionali e secondo in Prima Squadra), poi Cernusco, Brugherio, Seregno, BelluscoBiassono, dove, dopo aver invertito la rotta degli Allievi (14 vittorie e 1 pari dopo che avevano raggranellato 1 punto in 13 partite), il presidente De Capitani mi passò in Prima Squadra. Poi alla Juve Cusano (Giovanissimi Regionali, ma coordinavo anche l'attività agonistica), dove conobbi il Trap, e nel 2002 torno a Biassono in Seconda Categoria. Dopo l'avvio claudicante viaggiammo a mille e vincemmo il campionato. Da lì in poi un decennio tra Lissone, Real Besana, DiPo, La Dominante e Cavenago».

Un'avventura bellissima è stata con la Campagnola Don Bosco.
«Giunse la chiamata dei mitici Severino e Tino e nel '70 dalla fondazione della società la porto subito in Prima Categoria: era la prima volta nella loro storia. Veniamo ripescati dopo aver eliminato la Cosov ai playoff e perso la finale regionale. Un ambiente familiare, al punto tale che al terzo anno rimisi il mandato, in accordo col presidente, pur di provare a tenere la categoria».

Hai un modello in panchina?
«Mi hanno insegnato tanto mister Lodrini e Mariottini alla Pro Sesto: ho avuto Veleno Lorenzi e Gigi Balestra, collaboratore poi di Capello. Trapattoni è l'icona: abitava vicino al campo e si faceva qualche sgambata coi Giovanissimi, informandosi su come gestivo il gruppo».

Cosa chiedi a una tua squadra?
«Serietà, attenzione a ciò che si fa, determinazione e rispetto: verso arbitro, compagni e avversari».

Descrivi con un aggettivo le tre gare con la Nuova Usmate.
«Il debutto: emozionante. Ritornare a casa contro la Campagnola, come una sceneggiatura! Il ko contro l'Ausonia: utile. Gioco alla pari e buona mentalità, nonostante le assenze. Il successo sulla Cosov: convincente. C'era la determinazione giusta. Non ho un modulo fisso e gli schemi li creano i giocatori coi loro movimenti. Decido sempre in base al materiale umano. Qui ho visto che potevamo migliorare condizione fisica e convinzione mentale. In generale credo l'allenatore non abbia gran meriti: motiva e cerca le soluzioni migliori, ma più del suo lavoro conta la volontà dei giocatori. Il discorso sarebbe lungo».

A te la parola.
«Il calcio vero è quello dei dilettanti, ma se vuole scimmiottare il professionismo non si cresce su un piano sportivo. Il calcio è sano divertimento: è bello confrontarsi e condividere esperienze con i ragazzi, ma adesso si tende a passare meno tempo assieme. Io alleno per loro e col tempo ho smussato il mio carattere, la mia vittoria più bella è che centinaia di loro si ricordano di me nelle ricorrenze o quando mi incontrano».

Chi è Roberto?
«Un vecchio ragazzo che sbaglia tanto probabilmente, ma che ha il dono dell'autocritica. L'emozione irripetibile è stata durante la partita La Dominante-Campagnola Don Bosco del 2017, quando mio figlio Luca ha debuttato in Prima Categoria contro di me».

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