Nazionale
14 Novembre 2025
L’Italia, nei numeri, è molto meno “disperata” di come viene raccontata. Dopo il 2-0 in Moldavia, gli azzurri sono secondi nel gruppo I con 18 punti in 7 partite: 6 vittorie e 1 sola sconfitta, quella all’esordio con la Norvegia. Da allora, sei successi di fila, inclusi i 2-0 in trasferta proprio ieri. Eppure il clima è quello del “siamo scarsi”, “non ci qualificheremo mai”, “tanto al Mondiale che ci andiamo a fare?”. Proviamo a rimettere un po’ di razionalità in mezzo a tutta questa pancia.
La classifica del gruppo I, ad oggi, dice:
Norvegia: 7 partite, 7 vittorie, 33 gol fatti, 4 subiti, 21 punti
Italia: 7 partite, 6 vittorie, 1 sconfitta, 20 gol fatti, 8 subiti, 18 punti
Cioè: l’Italia ha perso una sola partita, quella iniziale, poi ha fatto percorso netto. Il “problema” è che davanti c’è una Norvegia straordinaria per continuità e differenza reti. Se metti questi stessi 18 punti in altri gironi, il quadro cambia parecchio:
Belgio (gruppo J): 14 punti in 6 gare (4 vittorie, 2 pareggi) – primo posto.
Svizzera (gruppo B): 10 punti in 4 gare, ma con già una “X” (3 vittorie, 1 pareggio).
Austria (gruppo H): 15 punti in 6 partite (5 vittorie, 1 sconfitta).
Portogallo (gruppo F): 10 punti in 5 partite, con una sconfitta fresca fresca in Irlanda.
Insomma: il ruolino dell’Italia – 2,57 punti a partita – in molti gironi ti mette tranquillamente davanti o comunque in posizione dominante. Qui sembra tutto drammatico perché la Norvegia sta facendo una qualificazione “alla prime versioni della Spagna di Del Bosque”: perfetta. Quando diciamo “l’Italia rischia di non qualificarsi per la terza volta di fila”, stiamo mescolando dati veri (il rischio c’è, i precedenti bruciano) con una lettura distorta del presente: questa Italia il suo girone lo sta facendo, e lo sta facendo bene. Non alla perfezione, ma bene. La discussione sul valore dei giocatori e sul potenziale della squadra rispetto alle Nazionali del passato è un altro paio di maniche. Qui analizziamo i numeri e i dati.
C’è anche un po’ di nostalgia selettiva. Sembra che un tempo l’Italia arrivasse sempre al Mondiale dopo qualificazioni immacolate. In realtà:
Mondiale 2014, girone UEFA B:
Italia: 10 partite, 6 vittorie, 4 pareggi, 0 sconfitta, 19 gol fatti, 9 subiti, 22 punti.
Mondiale 2010, girone UEFA 8:
Italia: 10 partite, 7 vittorie, 3 pareggi, 0 sconfitte, 18 gol fatti, 7 subiti, 24 punti.
Mondiale 2006, girone UEFA 5:
Italia: 10 partite, 7 vittorie, 2 pareggi, 1 sconfitta, 17 gol fatti, 8 subiti, 23 punti.
Mondiale 2002, girone UEFA 8:
Italia: 8 partite, 6 vittorie, 2 pareggi, 0 sconfitte, 16 gol fatti, 3 subiti, 20 punti.
Anche nel 2006 l’Italia perse una partita nel girone. Non fu una marcia trionfale senza inciampi: fu un percorso solido, da grande nazionale, con qualche scivolone. Nel 2002 ci fu uno score quasi perfetto, ma con due pareggi anche contro avversarie molto inferiori.
Se guardiamo ad altre big di oggi:
In Germania, nel girone delle qualificazioni 2026, hanno già una sconfitta in 4 partite.
Il Belgio pareggia due volte e resta comunque primo.
Portogallo perde 2-0 in Irlanda con Ronaldo espulso, va tutto bene.
Le campagne di qualificazione, per quasi tutti, sono percorsi “umani”, fatti di partite sporche, episodi, serate storte. L’idea che l’Italia, per essere “degna”, debba chiudere ogni girone con 10 vittorie su 10 e dando sempre grandi risposte sul campo è scollegata sia dalla storia sia dalla realtà attuale.
Per capire questo accanimento bisogna chiamare le cose col loro nome: trauma collettivo.
Nel 2018 l’Italia, in un girone con la Spagna, chiude seconda con 23 punti (7 vittorie, 2 pareggi, 1 sconfitta) e 21 gol fatti, 8 subiti. Non è una qualificazione disastrosa: è una qualificazione da “normale grande nazionale”, che poi crolla nello spareggio con la Svezia. Questo nessuno lo vuole negare.
Nel 2022 il tracollo con la Macedonia del Nord nei playoff diventa simbolo di un declino, e il racconto mediatico resta comprensibilmente incollato a quell’immagine: “Italia che non va ai Mondiali”.
Da lì nasce la lente con cui si guarda tutto oggi:
“Se non domini il girone, sei già da processare”.
“Se non sei primo in carrozza, vuol dire che ‘non siamo più l’Italia di una volta’”
Ma questa lente ignora completamente il fatto che le qualità della squadra si valutano anche sui cicli lunghi: la stessa Italia che manca due Mondiali è quella che, nel mezzo, vince con merito Euro 2020 a Wembley contro l’Inghilterra, non esattamente l’ultima arrivata.
Il problema, quindi, non è tanto il valore assoluto degli azzurri, quanto la combinazione esplosiva di:
Aspettative identitarie (“noi siamo l’Italia, dobbiamo sempre dominare”).
Traumi recenti.
Un dibattito pubblico che vive di estremi: o sei fenomeno, o sei ridicolo.
Questa frase, onestamente, andrebbe archiviata. Per vari motivi.
Il Mondiale non è un club esclusivo per chi parte numero 1 nei power ranking. È un torneo in cui: ti misuri col meglio, cresci come gruppo, ti esponi a partite e pressioni che non puoi riprodurre in nessun’altra competizione. Se fosse vero che il Mondiale è “solo per i favoriti”, la Croazia non avrebbe avuto nulla da dire negli ultimi due cicli: Finale nel 2018, terzo posto nel 2022, dopo aver eliminato il Brasile. Partiva mai come squadra più forte del mondo? No. È il solito promemoria: nei tornei corti contano compattezza, esperienza, dettagli, non solo il roster più scintillante.
Parliamo di un gruppo che, pur tra cambi generazionali e limiti strutturali del nostro calcio (minutaggio degli italiani in Serie A, pochi talenti in certi ruoli), resta: competitivo in Europa, capace di giocarsela con le big (vedi Nations League, Europei, amichevoli di lusso), dotato di giocatori che militano e si affermano in top club.
Dire “ma tanto che ci andiamo a fare al Mondiale” significa confondere la frustrazione per ciò che non siamo più (una superpotenza continua come tra anni ’80 e 2006) con la realtà di una nazionale che, oggi, sta tra le 8–12 migliori al mondo, in un contesto globalizzato dove il livello medio è salito ovunque.
Con i nuovi format, più posti per l’Europa ma anche più partite, più pressioni, più aleatorietà (playoff secchi, episodi, VAR, etc.), la vera discriminante tra le grandi nazionali sarà la costanza nel qualificarsi, non il numero di gironi chiusi a punteggio pieno. Chiedere all’Italia di qualificarsi non è un capriccio, è giusto. Dire “se non ci vai da favorita allora non ha senso andarci” è, invece, una resa culturale.
Tutto questo non significa dipingere un quadro rosa. I problemi ci sono. La sconfitta 0-3 con la Norvegia all’esordio è stata dura, sia tecnicamente sia simbolicamente. La difesa, pur solida nella maggior parte delle gare, ha concesso 8 gol, segno che l’equilibrio non è sempre stato perfetto. In alcune partite (Estonia fuori, Israele in casa) si sono visti blackout e cali di concentrazione (il celebre "Pranzo al sacco"), compensati da talento offensivo ma non sempre sostenibili nel lungo periodo.
Questi sono temi da analizzare seriamente: cosa manca in costruzione? Come gestire meglio i ritmi? Qual è il mix giusto tra veterani e giovani? Ma è una cosa molto diversa dal processo mediatico permanente del “siamo ridicoli”, “non meritiamo il Mondiale”, “la maglia pesa troppo per questi ragazzi”. Quella non è analisi: è sfogo.
Se metti insieme tutto:
I numeri del girone attuale (6 vittorie, 1 sconfitta, 18 punti).
La storia delle qualificazioni passate, non così dominate come spesso ricordiamo.
Il livello medio delle altre big, che non sempre fanno percorsi immacolati.
Il trauma reale dei Mondiali mancati, che alimenta una percezione più nera del dovuto.
ne esce un quadro molto diverso da quello urlato nei bar e nei social:
L’Italia non è una corazzata imbattibile, ma non è neanche una nazionale allo sbando.
È una squadra in ricostruzione, che sta facendo un buon girone in un contesto competitivo, con margini di crescita e difetti reali da correggere.
La discussione più utile non è “non andiamo al Mondiale perché siamo scarsi”, ma:
Ci qualificheremo come (diretti o playoff),
Con quali certezze tecniche e tattiche,
Quanto saremo pronti, una volta arrivati, a giocare un torneo in cui spesso vince chi sa soffrire, non solo chi parte da favorito.
Perché al Mondiale non ci vai quando sei il più forte sulla carta. Ci vai per dimostrare – a te stesso e agli altri – quanto vicino a quei più forti puoi davvero arrivare.
Un altro elemento che vale la pena ricordare: se guardiamo al continente sudamericano, la situazione è molto differente da come si vive in Europa. In quel girone misto della CONMEBOL per il 2026 FIFA World Cup, sei squadre su dieci si qualificano direttamente. Questo significa che perfino squadre non in uno stato di forma eccellente — pensa al Brasile, che pure sta attraversando un momento complesso — sono molto probabilmente dentro. In Europa invece la competizione è feroce, meno posti per tutti, e questo fa sembrare “critica” anche una campagna qualificazione dai numeri realisticamente positivi.