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L'intervista

Marco Bellinazzo racconta i "divoratori di sogni": storie di calciatori illusi, sfruttati e schiacciati

Dal giornalista un noir sulla tratta di ragazzi africani verso l'Europa, e sulle figure che lucrano sulle speranze di giovani e famiglie

Marco Bellinazzo racconta i "divoratori di sogni": storie di calciatori illusi, sfruttati e schiacciati

Un romanzo d’inchiesta che scava nelle promesse infrante del pallone. Con La colpa è di chi muore (Fandango Libri, settembre 2025), Marco Bellinazzo — giornalista e saggista — sceglie la forma del noir per illuminare un sistema che lucra sui sogni dei ragazzi, soprattutto africani, trascinando famiglie e comunità in un vortice di debiti, illusioni e violenza. Protagonista è il cronista Dante Millesi, che dal ritrovamento di un cadavere nel Lago di Lugano segue un filo nero tra Milano, Lagos e Parigi.

Dal dato al volto: perché la scelta (per la prima volta) del genere narrativo?
«L’idea è nata ed è maturata in quasi cinque anni. Mi sono imbattuto in storie di cronaca diverse per nomi, età e geografie, tutte però con la stessa ferocia di fondo. A un certo punto mi sono chiesto: cosa c’è davvero dietro questi tutti questi casi? Un mondo organizzato, scientifico, che lucra sui sogni e sulle famiglie. A quel punto ho capito che il saggio non bastava più per due motivi: da un lato la crudeltà di certe vicende sfugge alla precisione chirurgica dell’analisi; dall’altro volevo arrivare a più lettori, con più efficacia. Quando personifichi il racconto, ti resta in testa un volto, non un numero».

La tratta dei giovani africani
Un noir classico nell’innesco — un corpo senza vita, un giornalista che indaga — ma con lo sguardo puntato sul modello di business costruito sulla pelle dei ragazzi. Dal miraggio delle accademie “pulite” in apparenza, fino a debiti che crescono a tassi di usura inchiodando intere famiglie: «L’80% non ce la farà, e quel debito contratto per farli partire a caccia di un sogni diventa per loro una spirale di vergogna e sensi di colpa, si fa leva per spingerli poi dentro circuiti criminali, legali o para-legali: partite truccate, intermediazioni opache». Qualcuno però riesce davvero a sfondare: «Sì, ma diventa il manifesto che alimenta il miraggio per tutti gli altri».

Nel libro si racconta soprattutto di Africa ed Europa. Ci sono similitudini con ciò che accade qui da noi su scala giovanile?
«Assolutamente sì, le analogie esistono. Non voglio demonizzare i procuratori: ce ne sono di seri. Però chi frequenta i campi giovanili sa che operano figure che io chiamo “divoratori di sogni”, che come sanguisughe speculano per ottenere il massimo profitto personale, trascinando con sé alla disperazione ragazzi che hanno accarezzato un’illusione, spesso senza un percorso di studio adeguato nel frattempo, e si ritrovano con niente in mano. Nel romanzo Dante Millesi cerca di salvare una squadra di casi come i loro. È una storia su chi non ha vinto, ma non riesce ad abbandonare il sogno».


Cosa non funziona nei nostri settori di base?
«Abbiamo sbagliato l’impianto. Le scuole calcio sono diventate una barriera economica e culturale: guardiamo al risultato immediato, all’inseguimento dell’affermazione, e non alla crescita integrale. Abbiamo allenatori molto preparati sul piano tecnico, ma non sempre formatori sensibili sul piano umano. In questo contesto il talento fatica a emergere, inaridisce. I Baggio, i Totti e i Del Piero ci sono ancora, ma non li sappiamo vedere, aspettare, accompagnare». Talento, questione centrale, ma che oggi forse non è più sufficiente. «Il romanzo, oltre alle storie, parla del rapporto più tragico che la modernità ha generato: talento contro potere, libertà e vocazione contro avidità. Nel calcio contemporaneo non bastano calciatori e allenatori bravi: servono dirigenti competenti, strutture e salvaguardie. Senza un ecosistema sano il talento viene schiacciato: si costruiscono carriere sui contratti, non sui percorsi».

Integrazione e inclusività, l’Italia è indietro rispetto ad altri paesi?
«Ogni volta che l’Italia ha saputo integrarsi e contaminarsi socialmente, i risultati sportivi sono arrivati. Lo dimostrano i risultati nelle altre discipline. Non c’è una sola causa, ma di certo da noi è mancato a lungo un processo di selezione attento alla capacità individuale e alla tecnica, al di là della struttura fisica. Chi ha seminato con coerenza — penso a Francia, Germania, Inghilterra — raccoglie oggi una ricchezza che noi rischiamo di perdere ancora per anni».

Nel 2018 pubblicavi “La fine del calcio italiano”. Che cosa è cambiato rispetto ad allora?
«Non molto. In quel libro indicavo e auspicavo interventi concreti. Quel libro racconta come abbiamo perso quei primati e come non facciamo nulla per rimediare. Finché avremo eccezioni, isole felici come può essere oggi l’Atalanta, e non una strategia condivisa, non invertiremo la rotta. I giovani italiani? Dobbiamo necessariamente tornare - anche per ragioni economiche - a un modello di calcio diverso che riparta loro. Altrimenti pochi emergeranno, quei pochi costeranno tantissimo mentre tutti gli altri non avranno mai l’occasione di emergere».

A chi vorresti arrivasse “La colpa è di chi muore”?
«Ai genitori, alle famiglie. Quelli che vedo ogni settimana attorno ai campi. Mi piacerebbe che questo libro aiutasse ad aprire gli occhi sulle dinamiche del reclutamento, in Africa, ma anche nelle nostre periferie. Che fosse un invito a impostare per i propri figli un percorso di consapevolezza; a pretendere dirigenti e allenatori che siano formatori, a esigere scuole calcio che siano davvero palestre di vita, non sportelli di sogno. Per contribuire tutti a una profonda quanto necessaria rivoluzione culturale».

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