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La storia

Quarant'anni fa moriva Vincenzo Paparelli

Vite spezzate, il dopo che non finisce mai per chi resta

Vite spezzate: le famiglie delle vittime di violenza ultras a confronto

Lotito abbraccia il figlio di Vincenzo Paparelli

La bomboletta di vernice è nascosta nel bauletto di uno scooter. Non serve a firmare un muro, ma a cancellarlo. A Roma, un figlio percorre strade note per coprire scritte che oltraggiano suo padre. È il gesto ripetuto negli anni da Gabriele Paparelli, che di fronte a quel «10–100–1000 Paparelli» ha imparato a trasformare la rabbia in rito, memoria, resistenza. È una delle tante scene domestiche e civili che compongono il paesaggio sommerso delle famiglie colpite dalla violenza ultras. Un paesaggio dove le date hanno un suono, i numeri hanno un volto e la giustizia, anche quando arriva, non richiude mai del tutto lo strappo.

Paparelli, l’inizio di una ferita collettiva

Alle 13.15 del 28 ottobre 1979, allo Stadio Olimpico di Roma, Vincenzo Paparelli viene colpito a morte da un razzo sparato dalla curva Sud romanista. L’autore materiale, allora diciottenne, è Giovanni Fiorillo, che si dà alla latitanza e si costituirà dopo 14 mesi. La Cassazione, nel 1987, confermerà la condanna per omicidio preterintenzionale a 6 anni e 10 mesi per Fiorillo e pene minori per i complici. La moglie, Wanda, è accanto a Vincenzo: gli ha comprato il biglietto e con lui ha scelto un posto in curva Nord, vicino alla tribuna Tevere, per defluire più facilmente. È lì che il razzo lo colpisce all’occhio, davanti a lei. È lì che nasce una frattura che a Roma, per anni, si alimenterà di cori e scritte infami, fino alla fatica quotidiana dei familiari di cancellarle. Oggi, senza indulgere alla retorica, quella storia è ricostruita con lucidità: la mano, il contesto, la sequenza degli eventi, il peso di una vedova e dei figli, e anche il dato nudo e crudo del diritto. Tutto inciso in una memoria cittadina che riemerge ogni 28 ottobre. [Il Tempo conferma i passaggi essenziali e le circostanze di quel derby e della condanna; altre ricostruzioni indipendenti ribadiscono latitanza, sentenza e l’onda lunga dell’odio scritto sui muri].

Il dolore, nel tempo, ha una sua geografia. La salma di Vincenzo riposa a Prima Porta, accanto a idoli della Lazio. La sua figura aleggia tra bandiere e ricorrenze, ma soprattutto nella voce del figlio Gabriele, che ha raccontato il proprio dopo: scuole cambiate, isolamento, la bomboletta sempre pronta. «Quel razzo ha distrutto la mia famiglia», dice. È uno spartiacque personale e pubblico.

Ciro, l’assenza e il perdono possibile

Il 3 maggio 2014, poche ore prima della finale di Coppa Italia Napoli–Fiorentina, in viale di Tor di Quinto a Roma, il napoletano Ciro Esposito viene ferito a colpi di pistola. Morirà dopo 53 giorni di agonia, il 24 giugno al Policlinico Gemelli. Per quell’omicidio la giustizia individua il responsabile in Daniele De Santis, ex ultrà romanista noto come “Gastone”: 26 anni in primo grado, ridotti a 16 anni in appello, sentenza poi resa definitiva dalla Cassazione il 25 settembre 2018. Accanto alla cronaca giudiziaria c’è la postura morale della madre, Antonella Leardi, che dichiara di aver perdonato l’assassino e trasforma il lutto in impegno civico: nasce l’associazione Ciro Vive, una casa per i ragazzi di Scampia, progetti sociali, sport e prevenzione. La resilienza, qui, ha il volto di una donna che parla ai giovani e chiede responsabilità prima ancora che giustizia, mentre le curve e la città si dividono tra memoria e rabbia.

“Gabbo”, la sentenza che cambia il corso della storia

L’11 novembre 2007, nell’area di servizio Badia al Pino sulla A1, durante un tumulto tra tifosi, un colpo di pistola della Polstrada uccide il laziale Gabriele Sandri, 26 anni, DJ, che dorme sul sedile posteriore di un’auto diretta a Milano. Il primo grado è una ferita: 6 anni per omicidio colposo all’agente Luigi Spaccarotella. In appello e poi in Cassazione la qualificazione giuridica cambia: omicidio volontario con dolo eventuale, pena definitiva 9 anni e 4 mesi (decisione del 14 febbraio 2012). È una rarità processuale che sposta l’asse della responsabilità e ridisegna il margine tra errore e scelta. La famiglia Sandri attraversa tutte le fasi del lutto pubblico: l’esplosione di proteste dopo il primo verdetto, le parole dure e poi rimesse a fuoco, l’impegno della Fondazione Gabriele Sandri e una rete di iniziative – dalle donazioni di sangue al ricordo laico nelle piazze e negli stadi – che metabolizzano la rabbia trasformandola in educazione civica. Lo stesso Viminale risarcirà la famiglia in sede civile, un atto simbolico oltre che materiale.

Raciti, la legge che chiude i tornelli

Il 2 febbraio 2007 a Catania, durante e dopo il derby con il Palermo, l’ispettore capo della Polizia di Stato Filippo Raciti viene colpito a morte nel caos degli scontri fuori dallo stadio. L’impatto sull’ordinamento è immediato: il Governo vara il decreto-legge 8 febbraio 2007 n. 8 (la cosiddetta “legge Amato”, poi convertita nella legge 4 aprile 2007 n. 41), che mette a sistema misure incisive: porte chiuse per gli stadi non a norma, rafforzamento del DASPO, restrizioni sulla vendita dei biglietti, inasprimento delle sanzioni. Sul fronte penale arrivano le condanne per omicidio preterintenzionale a carico di due ultras: Antonino Speziale (minorenne all’epoca, pena definitiva 8–14 anni ridefinita nel passaggio d’appello) e Daniele Micale (11 anni), confermate nel 2012. La vedova, Marisa Grasso, diventa una voce costante: chiede memoria, rigore e rispetto. Ma la sua storia, come quella di Wanda e Antonella, è soprattutto la storia di un tavolo di cucina dove si impara a stare in piedi dopo che tutto è crollato.

De Falchi, l’agguato e la stanza immobile

Il 4 giugno 1989 a Milano, fuori dal Meazza, il romanista Antonio De Falchi, 18 anni, viene pestato a morte da un gruppo di ultras rossoneri vicino al cancello 16. La vicenda approda nelle aule di giustizia con esiti parziali: un unico colpevole, Luca Bonalda, condannato per omicidio preterintenzionale a 7 anni, mentre due imputati vengono assolti. A Roma, a Torre Maura, la stanza di Antonio resta com’era: cimeli, colori, foto, una reliquia domestica. La Curva Sud ricorda ogni 4 giugno; accade anche il contrario, con scritte rivali che insultano la memoria: ferite fresche in un corpo collettivo che fatica a cicatrizzarsi. La famiglia ha tenuto la postura composta del dolore, anche quando il discorso pubblico si sfilacciava in tifo e revisionismi.

Furlan, quando a colpire fu lo Stato

Trieste, 8 febbraio 1984, Coppa Italia Triestina–Udinese allo stadio Grezar. Nel dopopartita, durante una carica, il ventenne Stefano Furlan viene colpito duramente; morirà dopo venti giorni, il 1° marzo 1984. Un agente di polizia, Alessandro Centrone, sarà condannato per eccesso colposo a un anno (con benefici). Per Renata, la madre, comincia una vita di battaglie e commemorazioni: la Curva Sud del Nereo Rocco oggi porta il nome di Furlan, e Trieste ha fatto della sua memoria una mostra, un libro, un percorso educativo. Che cosa significa resilienza in questo caso? Significa che una madre prende autobus per portare un fiore alla tomba del figlio, per decenni, e che ogni anniversario diventa una lezione civica in piazza.

Oltre i verdetti: il lavoro silenzioso del dopo

  1. Il “dopo” di Wanda è una scottatura che non sbiadisce, il trauma di un occhio crivellato da un ordigno artigianale. È anche la cronaca di una città che, per decenni, ha tollerato cori e striscioni di scherno. Nel racconto di Gabriele Paparelli ci sono scuole cambiate, telefonate anonime, e una bandiera che torna in curva ogni 28 ottobre senza bisogno di parole.
  2. Il “dopo” di Antonella Leardi è l’idea che la giustizia si debba far valere in tribunale ma che la convivenza si costruisca prima, sui campi di periferia, nelle palestre recuperate, tra ragazzi che il pallone lo usano per stare insieme e non per cercare una missione identitaria nel conflitto. Ciro Vive nasce qui: una associazione che riqualifica spazi e educa.
  3. Il “dopo” dei Sandri è una Fondazione che moltiplica gesti concreti: donazioni di sangue, incontri nelle scuole, momenti pubblici in cui la parola “violenza” non è un’etichetta generica ma un fenomeno da smontare pezzo per pezzo. La Cassazione che scrive «omicidio volontario con dolo eventuale» è una riga che cambia la storia dei faldoni; non restituisce un figlio, ma restituisce linguaggio al dolore.
  4. Il “dopo” di Marisa Grasso è la richiesta che la divisa non sia mai scudo o bersaglio. È il monito che segue all’onda normativa del 2007, quando lo Stato riscrive un pezzo di sicurezza negli stadi con tornelli, biglietti nominativi, Daspo rafforzati, e la frase che tutti ripetono: mai più.

I numeri oggi: un campanello che non smette di suonare

La fotografia più recente dice che l’onda non si è ritirata. Il Rapporto 2023 dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive registra, per la stagione 2022/2023, un aumento di feriti, arresti, denunce e Daspo rispetto all’anno precedente: 113 feriti civili (erano 66), 147 tra le forze dell’ordine (erano 72), 2.011 denunciati (+531), 125 arresti (+66). Gli episodi di discriminazione126 tra razziale, territoriale e antisemita – completano un quadro allarmante. Nel 2024, secondo Ansa, i Daspo sono cresciuti di circa 40% sul totale delle misure preventive, mentre gli operatori impiegati nell’ordine pubblico hanno superato quota 234.000. Sono numeri che raccontano il presente, non la nostalgia del passato.

Le famiglie, le curve, la città

C’è un triangolo che si ripete: famiglia–curva–città. Le famiglie portano il peso e l’esempio; le curve oscillano tra memoria e militanza; le città sono lo sfondo che assorbe e riflette. A Roma, attorno ai nomi Paparelli, Sandri e Esposito, convivono striscioni, fiaccolate, provocazioni e gesti di riconciliazione. A Trieste, la curva è una intitolazione e una mostra che porta i ragazzi dentro una storia concreta, con un nome, una famiglia, un processo. A Milano, la vicenda De Falchi riemerge come cartina di tornasole dell’etica del tifo: si può ricordare senza usare il ricordo come arma?

Strategie di resilienza: cosa funziona davvero

  1. Riti positivi. Tornei, donazioni, giornate della memoria. La Fondazione Gabriele Sandri e Ciro Vive mostrano che i riti di comunità possono spostare la narrazione dal noi/loro al noi.
  2. Educazione. Incontri nelle scuole, testimonianze dirette dei familiari, formazione delle forze dell’ordine e dei club: la prevenzione è una infrastruttura culturale prima che fisica. I dossier parlamentari e i rapporti dell’Osservatorio insistono su questa linea.
  3. Trasparenza giudiziaria. Le sentenze motivate e comunicabili (come nel caso Sandri col passaggio al dolo eventuale) rafforzano la fiducia nella giustizia e separano responsabilità individuali da generalizzazioni.
  4. Spazi rigenerati. Dalle palestre di Scampia ai centri di quartiere, gli spazi rifatti dalle associazioni legate alle vittime abbassano la soglia di rischio e alzano quella di opportunità.
  5. Tolleranza zero verso l’odio. L’aumento dei Daspo e l’attenzione specifica alle discriminazioni non sono burocrazia: sono barriere simboliche e pratiche che proteggono chi va allo stadio per vivere sport e non guerra.

Un equilibrio difficile: riconciliazione senza oblio

C’è un discrimine sottile tra riconciliazione e rimozione. Le famiglie intervistate e raccontate negli anni – Wanda, Gabriele, Antonella, Marisa – non chiedono oblio, chiedono rispetto. Il rispetto è una scritta cancellata prima che la veda una madre, è un minuto di silenzio proclamato senza polemiche, è un club che decide di mettere il suo peso economico e simbolico su progetti di inclusione. È anche, dove serve, la fermezza: perché ogni “nulla è cambiato” inciso sul marmo di un cimitero è uno sputo sulla città.

Una chiosa necessaria: la memoria come politica pubblica

Le storie di Paparelli, Esposito, Sandri, Raciti, De Falchi, Furlan hanno prodotto leggi, sentenze, procedure. Ma la memoria non si esaurisce nei codici. È politica pubblica quando le istituzioniMinistero dell’Interno, Osservatorio, club, comuni – convergono su protocolli che mettano al centro la dignità delle famiglie: partecipazione ai tavoli cittadini, supporto psicologico strutturato, tutele economiche nei tempi giusti, impegni vincolanti contro cori d’odio e iconografie violente. E quando l’informazione racconta questi percorsi senza spettacolarizzare il dolore, diventa a sua volta prevenzione.

C’è un’immagine che può chiudere, provvisoriamente, questo viaggio. È di nuovo una bomboletta, ma stavolta non cancella: disegna un cuore. A Torre Maura, gli amici di Antonio De Falchi lo hanno dipinto più volte, restaurato, difeso. In quella geometria semplice c’è l’ambizione minima e massima di chi resta: non vincere, ma sopravvivere con dignità. E fare, del calcio, la cornice di un noi più grande della curva.

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