La storia
28 Ottobre 2025
Lotito abbraccia il figlio di Vincenzo Paparelli
La bomboletta di vernice è nascosta nel bauletto di uno scooter. Non serve a firmare un muro, ma a cancellarlo. A Roma, un figlio percorre strade note per coprire scritte che oltraggiano suo padre. È il gesto ripetuto negli anni da Gabriele Paparelli, che di fronte a quel «10–100–1000 Paparelli» ha imparato a trasformare la rabbia in rito, memoria, resistenza. È una delle tante scene domestiche e civili che compongono il paesaggio sommerso delle famiglie colpite dalla violenza ultras. Un paesaggio dove le date hanno un suono, i numeri hanno un volto e la giustizia, anche quando arriva, non richiude mai del tutto lo strappo.
Alle 13.15 del 28 ottobre 1979, allo Stadio Olimpico di Roma, Vincenzo Paparelli viene colpito a morte da un razzo sparato dalla curva Sud romanista. L’autore materiale, allora diciottenne, è Giovanni Fiorillo, che si dà alla latitanza e si costituirà dopo 14 mesi. La Cassazione, nel 1987, confermerà la condanna per omicidio preterintenzionale a 6 anni e 10 mesi per Fiorillo e pene minori per i complici. La moglie, Wanda, è accanto a Vincenzo: gli ha comprato il biglietto e con lui ha scelto un posto in curva Nord, vicino alla tribuna Tevere, per defluire più facilmente. È lì che il razzo lo colpisce all’occhio, davanti a lei. È lì che nasce una frattura che a Roma, per anni, si alimenterà di cori e scritte infami, fino alla fatica quotidiana dei familiari di cancellarle. Oggi, senza indulgere alla retorica, quella storia è ricostruita con lucidità: la mano, il contesto, la sequenza degli eventi, il peso di una vedova e dei figli, e anche il dato nudo e crudo del diritto. Tutto inciso in una memoria cittadina che riemerge ogni 28 ottobre. [Il Tempo conferma i passaggi essenziali e le circostanze di quel derby e della condanna; altre ricostruzioni indipendenti ribadiscono latitanza, sentenza e l’onda lunga dell’odio scritto sui muri].
Il dolore, nel tempo, ha una sua geografia. La salma di Vincenzo riposa a Prima Porta, accanto a idoli della Lazio. La sua figura aleggia tra bandiere e ricorrenze, ma soprattutto nella voce del figlio Gabriele, che ha raccontato il proprio dopo: scuole cambiate, isolamento, la bomboletta sempre pronta. «Quel razzo ha distrutto la mia famiglia», dice. È uno spartiacque personale e pubblico.
Il 3 maggio 2014, poche ore prima della finale di Coppa Italia Napoli–Fiorentina, in viale di Tor di Quinto a Roma, il napoletano Ciro Esposito viene ferito a colpi di pistola. Morirà dopo 53 giorni di agonia, il 24 giugno al Policlinico Gemelli. Per quell’omicidio la giustizia individua il responsabile in Daniele De Santis, ex ultrà romanista noto come “Gastone”: 26 anni in primo grado, ridotti a 16 anni in appello, sentenza poi resa definitiva dalla Cassazione il 25 settembre 2018. Accanto alla cronaca giudiziaria c’è la postura morale della madre, Antonella Leardi, che dichiara di aver perdonato l’assassino e trasforma il lutto in impegno civico: nasce l’associazione Ciro Vive, una casa per i ragazzi di Scampia, progetti sociali, sport e prevenzione. La resilienza, qui, ha il volto di una donna che parla ai giovani e chiede responsabilità prima ancora che giustizia, mentre le curve e la città si dividono tra memoria e rabbia.
L’11 novembre 2007, nell’area di servizio Badia al Pino sulla A1, durante un tumulto tra tifosi, un colpo di pistola della Polstrada uccide il laziale Gabriele Sandri, 26 anni, DJ, che dorme sul sedile posteriore di un’auto diretta a Milano. Il primo grado è una ferita: 6 anni per omicidio colposo all’agente Luigi Spaccarotella. In appello e poi in Cassazione la qualificazione giuridica cambia: omicidio volontario con dolo eventuale, pena definitiva 9 anni e 4 mesi (decisione del 14 febbraio 2012). È una rarità processuale che sposta l’asse della responsabilità e ridisegna il margine tra errore e scelta. La famiglia Sandri attraversa tutte le fasi del lutto pubblico: l’esplosione di proteste dopo il primo verdetto, le parole dure e poi rimesse a fuoco, l’impegno della Fondazione Gabriele Sandri e una rete di iniziative – dalle donazioni di sangue al ricordo laico nelle piazze e negli stadi – che metabolizzano la rabbia trasformandola in educazione civica. Lo stesso Viminale risarcirà la famiglia in sede civile, un atto simbolico oltre che materiale.
Il 2 febbraio 2007 a Catania, durante e dopo il derby con il Palermo, l’ispettore capo della Polizia di Stato Filippo Raciti viene colpito a morte nel caos degli scontri fuori dallo stadio. L’impatto sull’ordinamento è immediato: il Governo vara il decreto-legge 8 febbraio 2007 n. 8 (la cosiddetta “legge Amato”, poi convertita nella legge 4 aprile 2007 n. 41), che mette a sistema misure incisive: porte chiuse per gli stadi non a norma, rafforzamento del DASPO, restrizioni sulla vendita dei biglietti, inasprimento delle sanzioni. Sul fronte penale arrivano le condanne per omicidio preterintenzionale a carico di due ultras: Antonino Speziale (minorenne all’epoca, pena definitiva 8–14 anni ridefinita nel passaggio d’appello) e Daniele Micale (11 anni), confermate nel 2012. La vedova, Marisa Grasso, diventa una voce costante: chiede memoria, rigore e rispetto. Ma la sua storia, come quella di Wanda e Antonella, è soprattutto la storia di un tavolo di cucina dove si impara a stare in piedi dopo che tutto è crollato.
Il 4 giugno 1989 a Milano, fuori dal Meazza, il romanista Antonio De Falchi, 18 anni, viene pestato a morte da un gruppo di ultras rossoneri vicino al cancello 16. La vicenda approda nelle aule di giustizia con esiti parziali: un unico colpevole, Luca Bonalda, condannato per omicidio preterintenzionale a 7 anni, mentre due imputati vengono assolti. A Roma, a Torre Maura, la stanza di Antonio resta com’era: cimeli, colori, foto, una reliquia domestica. La Curva Sud ricorda ogni 4 giugno; accade anche il contrario, con scritte rivali che insultano la memoria: ferite fresche in un corpo collettivo che fatica a cicatrizzarsi. La famiglia ha tenuto la postura composta del dolore, anche quando il discorso pubblico si sfilacciava in tifo e revisionismi.
Trieste, 8 febbraio 1984, Coppa Italia Triestina–Udinese allo stadio Grezar. Nel dopopartita, durante una carica, il ventenne Stefano Furlan viene colpito duramente; morirà dopo venti giorni, il 1° marzo 1984. Un agente di polizia, Alessandro Centrone, sarà condannato per eccesso colposo a un anno (con benefici). Per Renata, la madre, comincia una vita di battaglie e commemorazioni: la Curva Sud del Nereo Rocco oggi porta il nome di Furlan, e Trieste ha fatto della sua memoria una mostra, un libro, un percorso educativo. Che cosa significa resilienza in questo caso? Significa che una madre prende autobus per portare un fiore alla tomba del figlio, per decenni, e che ogni anniversario diventa una lezione civica in piazza.
La fotografia più recente dice che l’onda non si è ritirata. Il Rapporto 2023 dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive registra, per la stagione 2022/2023, un aumento di feriti, arresti, denunce e Daspo rispetto all’anno precedente: 113 feriti civili (erano 66), 147 tra le forze dell’ordine (erano 72), 2.011 denunciati (+531), 125 arresti (+66). Gli episodi di discriminazione – 126 tra razziale, territoriale e antisemita – completano un quadro allarmante. Nel 2024, secondo Ansa, i Daspo sono cresciuti di circa 40% sul totale delle misure preventive, mentre gli operatori impiegati nell’ordine pubblico hanno superato quota 234.000. Sono numeri che raccontano il presente, non la nostalgia del passato.
C’è un triangolo che si ripete: famiglia–curva–città. Le famiglie portano il peso e l’esempio; le curve oscillano tra memoria e militanza; le città sono lo sfondo che assorbe e riflette. A Roma, attorno ai nomi Paparelli, Sandri e Esposito, convivono striscioni, fiaccolate, provocazioni e gesti di riconciliazione. A Trieste, la curva è una intitolazione e una mostra che porta i ragazzi dentro una storia concreta, con un nome, una famiglia, un processo. A Milano, la vicenda De Falchi riemerge come cartina di tornasole dell’etica del tifo: si può ricordare senza usare il ricordo come arma?
C’è un discrimine sottile tra riconciliazione e rimozione. Le famiglie intervistate e raccontate negli anni – Wanda, Gabriele, Antonella, Marisa – non chiedono oblio, chiedono rispetto. Il rispetto è una scritta cancellata prima che la veda una madre, è un minuto di silenzio proclamato senza polemiche, è un club che decide di mettere il suo peso economico e simbolico su progetti di inclusione. È anche, dove serve, la fermezza: perché ogni “nulla è cambiato” inciso sul marmo di un cimitero è uno sputo sulla città.
Le storie di Paparelli, Esposito, Sandri, Raciti, De Falchi, Furlan hanno prodotto leggi, sentenze, procedure. Ma la memoria non si esaurisce nei codici. È politica pubblica quando le istituzioni – Ministero dell’Interno, Osservatorio, club, comuni – convergono su protocolli che mettano al centro la dignità delle famiglie: partecipazione ai tavoli cittadini, supporto psicologico strutturato, tutele economiche nei tempi giusti, impegni vincolanti contro cori d’odio e iconografie violente. E quando l’informazione racconta questi percorsi senza spettacolarizzare il dolore, diventa a sua volta prevenzione.
C’è un’immagine che può chiudere, provvisoriamente, questo viaggio. È di nuovo una bomboletta, ma stavolta non cancella: disegna un cuore. A Torre Maura, gli amici di Antonio De Falchi lo hanno dipinto più volte, restaurato, difeso. In quella geometria semplice c’è l’ambizione minima e massima di chi resta: non vincere, ma sopravvivere con dignità. E fare, del calcio, la cornice di un noi più grande della curva.