Calcio e tattica
23 Marzo 2025
Klopp, Guardiola, Gasperini
Nel calcio di oggi, dove ogni dettaglio fa la differenza, ci sono idee che non invecchiano, ma si trasformano. Il Gegenpressing – letteralmente "contro-pressing" – non è soltanto una tattica: è una filosofia. È un modo di interpretare lo spazio e il tempo. È l’arte di reagire prima ancora che l’avversario pensi. Ed è proprio da qui che voglio partire: dalla testa. Perché il Gegenpressing, più che nelle gambe, nasce nel cervello.
Molti credono che il Gegenpressing sia una scoperta recente. In realtà, le sue radici affondano nel “calcio totale” olandese degli anni ’70. Rinus Michels e Johan Cruyff avevano già intuito che il pressing, se ben coordinato, poteva diventare un’arma letale. L’idea era semplice quanto geniale: se perdi il pallone, lo vai a riprendere subito. Ma non da solo. In cinque, in sei, in dieci. Come un branco che agisce per istinto.
Poi arrivò Arrigo Sacchi, che al Milan degli anni ’80 e ’90 applicò rigore scientifico a quel caos creativo. Sacchi capì che per fare pressing alto servivano distanze perfette tra i reparti, linee difensive alte e sincronizzazione maniacale. Il suo Milan non aspettava. S’imponeva. Costringeva gli avversari all’errore prima ancora che potessero ragionare.
Quello che Michels aveva acceso, Sacchi l’ha organizzato. Ma mancava ancora qualcosa. Mancava la scintilla che trasformasse il Gegenpressing in una religione.
È con Jürgen Klopp che il Gegenpressing diventa totalizzante. Al Mainz prima, poi al Borussia Dortmund, Klopp trasforma una squadra operaia in un'orchestra selvaggia. Il suo principio è chiaro: «Il Gegenpressing è il miglior regista del mondo». Perché? Perché ti consente di creare gioco già nella fase difensiva, nel cuore della transizione negativa. Quando perdi palla, non ti disperi. Agisci. E proprio in quel momento – mentre l’avversario pensa di avere un vantaggio – lo colpisci. Forte. E da lì nascono occasioni, gol, entusiasmo.
Nel suo Borussia, ogni perdita di possesso era seguita da tre secondi di fuoco. Nessuno arretrava. Nessuno dava respiro. Era pressing, ma era anche coraggio, istinto, intelligenza collettiva.
Poi arriva Pep Guardiola. Diverso da Klopp, più cerebrale, più geometrico. Ma non meno geniale. Con lui, al Bayern Monaco e poi al Manchester City, il Gegenpressing cambia pelle. Diventa chirurgico. Se Klopp punta sull’intensità emotiva, Guardiola lo trasforma in una danza controllata: i suoi giocatori sanno esattamente dove stare prima ancora che l’azione avvenga. È pressing preventivo. È scacchi, non scazzottata.
Guardiola dimostra che il Gegenpressing non è solo atletismo: è tattica, timing, posizionamento. I suoi esterni chiudono linee di passaggio come portieri di sicurezza. I centrali difensivi avanzano come centrocampisti aggiunti. La squadra è un organismo vivente che respira e si muove all’unisono.
Nel panorama tattico europeo, Gian Piero Gasperini ha riscritto le regole del pressing con una visione personale e controcorrente. La sua Atalanta, spesso etichettata come una “provinciale” per struttura e risorse, ha dimostrato che l’aggressività organizzata può battere la tradizione. Il suo approccio non è una copia del Gegenpressing tedesco, ma una reinterpretazione: pressing uomo su uomo a tutto campo, marcature preventive, verticalità ossessiva.
Gasperini porta il pressing a un livello estremo, rompendo schemi classici e costringendo anche i grandi club europei a rivedere le proprie sicurezze. I suoi giocatori si muovono con automatismi quasi militari, ma con margini di libertà creativa. Non esistono reparti statici: i difensori salgono, gli esterni diventano registi, gli attaccanti rientrano come mediani.
Il vero genio di Gasperini sta nel coraggio: quello di accettare l’uno contro uno a tutto campo, di rischiare, di proporre calcio offensivo anche in contesti ostili. È Gegenpressing all’italiana, contaminato da idee offensive e una mentalità audace. Ed è anche un messaggio potente: non servono fuoriclasse per fare pressing da fuoriclasse, basta un’idea chiara e una squadra che ci crede.
Tuttavia, come ogni ideologia totalizzante, il Gegenpressing ha i suoi limiti.
Sforzo fisico e mentale: Giocare a quei ritmi richiede una preparazione impeccabile. Le squadre che adottano questa filosofia rischiano cali a stagione inoltrata. Gli infortuni aumentano. I giocatori bruciano energie mentali prima ancora che fisiche.
Avversari adattabili: Alcuni tecnici – penso ad Ancelotti, Mourinho, De Zerbi – hanno imparato a giocare contro il Gegenpressing. Con movimenti intelligenti e palleggio sicuro, si può sfuggire alla pressione. E quando succede, sono dolori per chi pressa.
Dipendenza dal collettivo: Il Gegenpressing non perdona chi sbaglia. Basta un giocatore in ritardo e il castello crolla. È una tattica che funziona solo se tutti sono perfettamente sincronizzati. Ogni esitazione è un varco aperto.
Oggi, il Gegenpressing si sta evolvendo ancora. Con l’uso dei dati, delle mappe di calore, dell’intelligenza artificiale, le squadre possono pianificare pressing situazionali: attivare la pressione solo in certe zone, contro certi avversari, in certi minuti. Il futuro sarà fatto di pressing modulare, intelligente, adattivo.
Ma l’anima resterà quella: l’istinto di non arretrare, di trasformare la perdita in conquista.
Il Gegenpressing è come una lezione di vita. Non ti insegna a subire. Ti insegna a reagire. A non piangerti addosso quando perdi qualcosa, ma a riprenderlo subito. Con fame. Con intelligenza. Con spirito di squadra.
E questo – nel calcio come nella vita – fa tutta la differenza del mondo.