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Mondiale per club

Chelsea e PSG: il bel calcio e il brutto esempio

Una finale spettacolare, ma segnata da gesti inaccettabili. Tra gol da copertina e colpi bassi, quello che resta è un messaggio sbagliato per chi il calcio lo sogna (e lo imita)

Chelsea e PSG: il bel calcio e il brutto esempio

L'esultanza di Palmer e la rissa finale

Una finale spettacolare, ma segnata da gesti inaccettabili. Tra gol da copertina e colpi bassi, quello che resta è un messaggio sbagliato per chi il calcio lo sogna (e lo imita).

Finale da sogno. Stadio pieno, luci americane, telecamere ovunque. Chelsea contro PSG, il meglio del calcio europeo a contendersi il titolo di campione del mondo per club.
Un 3-0 secco, in favore degli inglesi. Ma il vero spettacolo, purtroppo, è andato in scena dentro il campo, ma fuori dal gioco.

Prima ancora degli episodi controversi, la finale aveva regalato grande calcio. Il protagonista assoluto? Cole Palmer. L'attaccante del Chelsea ha realizzato due gol e servito anche un assist, illuminando la partita con giocate di classe e freddezza sotto porta. La sua prestazione sembrava destinata a essere il simbolo positivo di una finale da ricordare.

Nel finale di secondo tempo, João Neves – centrocampista del PSG – perde il controllo e afferra per i capelli Marc Cucurella, scatenando un parapiglia in campo. Volano spintoni, parole grosse, cartellino giallo poi corretto in rosso dopo il VAR.

Un gesto infantile e brutale al tempo stesso. Ridicolo, se non fosse tutto così maledettamente reale.

Il grande cortocircuito

Una finale mondiale dovrebbe essere un punto d’arrivo, un momento di sport allo stato puro, anche con l’adrenalina a mille e i nervi tesi come corde. Invece, il calcio ha mostrato ancora una volta il suo lato peggiore.
Non è la prima volta, certo. Ma ogni volta è quella che resta negli occhi. Soprattutto se a guardare c'è un'intera generazione di giovani calciatori che da questi campioni dovrebbe imparare il valore della sfida, non quello della rissa.

Copiare è naturale, purtroppo

Sappiamo tutti come funziona. I bambini vedono, assorbono, imitano. A volte inconsciamente. Basta un’esultanza, un taglio di capelli, una frase detta nel tunnel degli spogliatoi.
E se invece di un gesto tecnico imitano uno scontro fisico, il danno è fatto.

Nel campo dell’oratorio, nel torneo estivo del quartiere, nei regionali Under 15: lo “spintone” visto sabato in mondovisione può diventare il “fallo di frustrazione” di lunedì sera.

È una linea sottile, quella tra ispirazione e contagio. Ma quando si è ragazzi, quella linea non la vedi. La attraversi.

Non c'è colpa, ma c'è una responsabilità condivisa

Anche i grandi, quelli a bordo campo, non sono immuni da questa dinamica. Genitori, dirigenti, allenatori. Nessuno fa il tifo per la violenza, ovviamente. Ma può capitare di giustificare un gesto duro con un "lo fanno anche loro", o di minimizzare uno scontro in campo con un "fa parte del gioco".

Il punto non è accusare, ma capire. Rendersi conto che ogni parola detta a bordo campo – anche in buona fede – può rafforzare o smorzare una cultura. E la cultura che ci serve è quella del rispetto, non quella della vendetta.

La vera forza è saper stare dentro le regole

Nel calcio, come nella vita, c'è un momento in cui il nervo può saltare. Ma proprio lì si misura il valore di un atleta.
Chi sa restare in piedi quando tutti stanno cadendo, chi riesce a non reagire anche se avrebbe tutte le ragioni per farlo, chi incassa e continua a giocare: quello è un campione. Quello è un esempio.

La rabbia è facile. Il rispetto è faticoso. Ma è l’unica via che ci permette di continuare a chiamare questo sport un gioco.

A chi tocca?

Tocca a chi è in cima. Tocca ai campioni, che hanno milioni di occhi puntati addosso. Tocca alle società, che devono educare prima ancora di allenare. Tocca anche ai media, che dovrebbero smettere di usare titoli come «Rissa mondiale» con tono compiaciuto, come se la violenza fosse un valore aggiunto allo spettacolo.

E sì, tocca anche a noi. A tutti quelli che il calcio lo raccontano, lo vivono, lo amano.

L’invito finale (che vale più di un gol)

Ai ragazzi che ci leggono: giocare duro non significa litigare.
Significa allenarsi, sopportare, imparare a reggere la pressione. Significa saper passare la palla anche quando vorresti spaccare tutto. Significa essere forti, davvero.

E se un giorno dovrete scegliere tra reagire o respirare, ricordatevi che nessuno vi giudicherà per aver scelto la calma.
Anzi, vi ammireranno per aver fatto la cosa più difficile: non perdere la testa.

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