Storie di calcio
31 Agosto 2025
Beppe Viola
Milano è inverno: il 15 scivola tra i Navigli, i vetri si appannano. Un biglietto obliterato, una domanda semplice. Accanto, Gianni Rivera guarda fuori; di fronte, una voce bassa che non forza nulla. Non è un set: è un tram. È Beppe Viola che, invece di alzare il volume, abbassa la distanza.
Perché il suo modo di raccontare lo sport è ancora un antidoto all’enfasi: asciutto, umano, laterale. Non cercava lo slogan: smontava le frasi fatte. E quando arrivava la battuta, era la chiusa naturale di un ragionamento, non un effetto per strappare attenzione.
Beppe Viola (Milano, 1939–1982) entra giovanissimo in Rai (1961) e diventa una delle voci più riconoscibili della tv pubblica: servizi per il Tg e la Domenica Sportiva, telecronache (calcio, ippica, pugilato, motori), una rubrica amatissima su «Linus» («Vite vere»), scrittura per cinema e canzoni in coppia con Enzo Jannacci. Il suo tratto? Un umorismo naturale, mai compiaciuto, e una pietà milanese per i personaggi di contorno — quelli ai margini, che rendono lo sport un teatro popolare.
Fuori copione, dentro la vita. La sua “lezione” più citata è l’intervista di Natale 1978 a Gianni Rivera in tram: niente set patinato, nessuna distanza gerarchica, solo la città che scorre dietro i vetri e il dialogo che si fa confidenza. Viola sposta il campione dal piedistallo alla normalità: il calciatore non è statua, è persona seduta accanto a te, con il biglietto in tasca e i pensieri di fine carriera. Quell’idea — «nessuno si interessa di quelli che prendono i tram» — è il manifesto di un metodo: cercare il contesto giusto per far cadere le difese, scegliere ambienti che dicano qualcosa del personaggio e lasciare che il racconto venga via quasi da solo.
Microfono basso, tempi umani. Viola non incalzava per incastrare; tagliava le pause, non i concetti. Niente domande a trabocchetto: preferiva il campo lungo sulla persona. Il risultato era un’intervista che il pubblico sentiva vera, perché fluiva come una chiacchierata di tram, bar, spogliatoio.
La battuta come servizio pubblico. L’ironia serviva a togliere peso, non a togliere valore. È sua — diventata proverbiale nel racconto di Evaristo Beccalossi — la chiusa: «Mi chiamo Evaristo, scusi se insisto», una carezza linguistica che restituisce colore al personaggio senza ridurlo a caricatura.
Viola praticava un umorismo di sottrazione. Amava l’assurdo quotidiano, le frasi mezze dette al bar, la comicità “di bordo campo” tanto quanto le geografie minori dello sport. Per questo frequentava e scriveva per il cabaret milanese (Derby Club), e per questo «Linus» gli affidò quelle «Vite vere» che ancora oggi sono un piccolo manuale di stile: osservazione, montaggio secco, finale che ribalta l’angolo. In tv diceva: «Le telecronache si fanno per mangiare, le altre cose per vivere» — non un disprezzo del mestiere, ma l’idea che la creatività inizi dove finisce il compitino.
Nel suo immaginario — e in quello dell’amico di cortile Enzo Jannacci — «Quelli che…» è prima di tutto un modo di guardare l’Italia: un catalogo affettuoso e implacabile di tipi umani, tic e ossessioni, montato per accumulo. Il brano esce a metà anni Settanta in più versioni e diventa un classico del repertorio di Jannacci. I crediti editoriali indicano Jannacci come autore del testo; molte testimonianze ricordano però quanto Viola abbia alimentato quel lessico e quella forma (insieme ad altri brani scritti con Jannacci). In ogni caso, la “spina” satirica è la stessa del suo giornalismo: guardare ai margini per spiegare il centro.
Quelli che si siedono in fondo al tram e guardano la città scorrere. Quelli che hanno il biglietto in tasca e una domanda in testa. Quelli che segnano e si vergognano a dirlo; e quelli che non segnano e ci ridono su. Quelli che fanno la formazione al bar, ma poi la domenica decide la vita. Quelli che parlano piano: le cose importanti si capiscono lo stesso. Quelli che il calcio lo amano senza aggettivi.
Televisione. Ha mostrato che si può cambiare il frame senza perdere credibilità. L’intervista itinerante, il luogo “parlante”, il racconto che si fa città sono strumenti oggi normalissimi, ma negli anni ’70 erano una rivoluzione gentile.
Linguaggio. Frasi-motto nate per caso, ma mai ammiccanti. La sua sintassi corta e pulita è un antidoto all’enfasi.
Ponti tra mondi. Dalla redazione alla musica, dal cabaret al cinema, ha ricordato a tutti che lo sport è cultura popolare, non nicchia separata.
Memoria viva. Il suo nome è legato a premi e tornei giovanili; Milano gli ha intitolato un giardino nel quartiere di casa, come si fa con le persone di famiglia.
La sera del 17 ottobre 1982 — tornato in sede dopo Inter–Napoli — Viola ha un malore mentre sta montando il servizio per la Domenica Sportiva: morirà poche ore dopo per emorragia cerebrale. Aveva 42 anni. Il dettaglio tecnico (la moviola da chiudere, il rientro da San Siro) racconta il professionista fino all’ultimo frame; la reazione del pubblico dice quanto quel tono, familiare e mai banale, fosse entrato in casa di tutti.
Scegli il luogo, non solo l’ospite. Un tram, un bar, una tribuna vuota: l’ambiente deve parlare quanto le risposte.
Taglia la retorica, non l’umanità. Fatti, contesto, dettagli minimi; lascia che la battuta, se arriva, sia conseguenza e non ornamento.
Fai sentire la città. Lo sport è pubblico: rumori, gesti laterali, piccole interruzioni possono essere racconto.
Resta gentile. L’ironia serve a sgonfiare il pallone, non a bucarlo.
Nome: Giuseppe «Beppe» Viola – giornalista, telecronista, scrittore, umorista.
Nato: Milano, 26 ottobre 1939 – Morto: Milano, 18 ottobre 1982.
Rai: dal 1961; Domenica Sportiva tra i programmi più frequentati.
Carta & libri: rubrica «Vite vere» su «Linus»; raccolte postume e memoir di famiglia.
Musica & cinema: lunga collaborazione con Enzo Jannacci; contributi a canzoni e sceneggiature.
Frase-simbolo: «Le telecronache si fanno per mangiare, le altre cose per vivere.»
Beppe Viola ha mostrato che per dire cose importanti non serve alzare la voce: basta un tram, una domanda semplice, una città che scorre. La gentilezza — nel calcio come nel giornalismo — è una forma di competenza.