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Superstizione e prestazione: come i riti influenzano psicologicamente atleti e allenatori

Dal dischetto alla mente: l’episodio Nigeria–RD Congo accende il dibattito sui “riti” nel calcio e su come gestire pressioni, distrazioni e provocazioni nei momenti che decidono una carriera

Superstizione e prestazione: come i riti influenzano psicologicamente atleti e allenatori

Il gesto è minuscolo e, proprio per questo, magnetico: una bottiglietta che oscilla, una mano che spruzza qualcosa verso l’erba. Dall’altra parte del campo, un allenatore perde l’aplomb e scatta verso la panchina avversaria, trattenuto a fatica. È la notte di Rabat, 16 novembre 2025, la finale dei playoff africani per il Mondiale 2026. La Nigeria e la Repubblica Democratica del Congo hanno finito per affidare il proprio destino ai rigori: al termine di 120 minuti fermi sull’1-1, i Leopards vincono 4-3 e restano in corsa per il biglietto mondiale. Poi, la miccia: il ct nigeriano Éric Sékou Chelle accusa uno membro dello staff congolese di aver compiuto un “rito voodoo” durante la serie. L’allenatore della RD Congo, Sébastien Desabre, lo ferma e tenta di smorzare il caso. Il risultato sportivo passa in secondo piano: il tema, ora, è la mente. Cosa fanno le credenze e i rituali alla testa di chi deve calciare, parare, decidere? E come si gestiscono distrazioni e provocazioni quando tutto si gioca su un solo gesto?

L’episodio: fatto, contesto, conseguenze

La cronaca è netta. Frank Onyeka segna per la Nigeria al 3', Meschack Elia pareggia al 32' per la RD Congo; ai rigori decide il capitano Chancel Mbemba. Per i congolesi si apre la strada verso lo spareggio interconfederale di marzo, per la Nigeria la seconda esclusione consecutiva dalla Coppa del Mondo. È durante e subito dopo la serie dal dischetto che Chelle si infuria: racconta di aver visto un componente della panchina congolese compiere un gesto “ripetuto, ogni volta”, evocando l’ombra di un rito per influenzare l’esito dei rigori. La controparte congolesi minimizza; le immagini mostrano concitazione a bordocampo, con Desabre ad allontanare fisicamente l’avversario. Sul piano dei fatti, la RD Congo avanza allo spareggio, la Nigeria si ferma. Sul piano simbolico, si accende una vecchia domanda: superstizione e sport, quanto contano?

Africa, un posto al Mondiale che pesa come un macigno

Nel quadro africano, le nove prime dei gironi hanno già staccato il pass: fra le altre, Egitto, Marocco, Tunisia, Algeria, Ghana, Capo Verde, Sudafrica, Senegal e Costa d’Avorio. La RD Congo, superando la Nigeria, accede al torneo a sei squadre che a marzo 2026 in Messico assegnerà due posti per USA–Canada–Messico 2026. Per i Leoni Verdi, l’ultimo Mondiale resta quello del 1974 quando il Paese si chiamava Zaire: l’orizzonte di un ritorno dopo 51 anni spiega la temperatura emotiva della notte di Rabat.

Riti e credenze: quando la “magia” cambia davvero qualcosa

In superficie, i rituali sono folclore. In profondità, sono strumenti psicologici. La letteratura scientifica è sorprendentemente concorde: attivare una credenza di “buona sorte” può migliorare la prestazione perché aumenta la auto‑efficacia e la fiducia. Già nel 2010, gli studi della Università di Colonia (autori Lysann Damisch, Barbara Stoberock, Thomas Mussweiler) dimostravano che il semplice “attivare” la superstizione – restituendo un portafortuna o augurando “in bocca al lupo” – migliora risultati in compiti di destrezza, memoria, problem solving. Non c’è magia: c’è più fiducia, obiettivi più alti, maggiore persistenza.

Più in generale, la ritualità riduce l’ansia perché crea controllo percepito: una sequenza ripetuta e familiare incanala l’attivazione fisiologica e placa i pensieri intrusivi. È uno dei tasselli della gestione dell’arousal: il corpo resta “acceso”, ma la testa regge. In parallelo, la psicologa Alison Wood Brooks ha mostrato come “ricodificare” l’ansia come eccitazione – dirsi “sono eccitato”, non “devo calmarmi” – migliori performance in compiti ad alta pressione come cantare, parlare in pubblico o risolvere problemi matematici. La chiave è spostare il mindset dalla minaccia all’opportunità. In una serie di studi pubblicati tra 2013 e 2014, chi si dichiarava “eccitato” cantava meglio, parlava in modo più persuasivo e risolveva più problemi: una strategia semplice, “a costo zero”, applicabile anche ai rigori.

Infine, c’è l’“effetto contagio”: credere che un attrezzo appartenga a un campione può migliorare la resa – un classico nel golf – perché trasferiamo simbolicamente qualità dell’idolo sull’oggetto. È un altro modo con cui la mente converte una credenza in fiducia operativa.

Penalty shootout: il laboratorio perfetto

Il rigore, più di ogni gesto, comprime tecnica, routine e nervi. Il norvegese Geir Jordet, tra i massimi studiosi della psicologia dei rigori, lo ripete da vent’anni: non è una lotteria, vince chi prepara anche i dettagli che non si vedono. Dalle sue analisi emerge, per esempio, che chi “si affretta” dopo il fischio dell’arbitro sbaglia più spesso; che una struttura mentale e comportamentale coerente – tempi, respiro, sguardo, posizionamento del pallone – aumenta le probabilità di successo; che anche i portieri possono alterare l’equilibrio con strategie di distrazione entro i limiti del regolamento.

Gli esempi abbondano: dal “balletto” di Andrew Redmayne (Australia) allo “studio” delle tendenze degli avversari inciso sulle borracce dei portieri, fino alle evoluzioni metodologiche di nazionali che hanno trasformato le proprie abitudini. Non a caso federazioni come l’FA inglese hanno blindato la comunicazione sulle pratiche al dischetto per evitare che trapelino routine e protocolli psicologici, divenuti patrimonio strategico tanto quanto schemi e moduli.

Distrazione, provocazione e “limiti” del regolamento

La domanda, a questo punto, è cruciale: cosa è lecito per “spostare” la mente dell’avversario? Il regolamento si è mosso. Con gli aggiornamenti IFAB 2023/24 e successive puntualizzazioni, ai portieri è vietato “distrarre slealmente” il tiratore: devono restare sulla linea, rivolti al calciatore, senza toccare pali, traversa o rete, né ritardare l’esecuzione. È un segno dei tempi: la componente psicologica dello scontro dagli 11 metri è così centrale da richiedere cornici più chiare. E non vale solo per i portieri: anche la “distrazione verbale” rientra tra le condotte sanzionabili come comportamento antisportivo.

La realtà, tuttavia, è più sfumata: molte condotte cadono in “zone grigie” – piccoli rituali, posture, scambi di sguardi, micro-ritardi – che non sempre superano la soglia del punibile. È in questo spazio che i riti (autoprodotti o “subiti”) diventano armi mentali: possono sostenere la fiducia di chi calcia, o scalfirla; stabilizzare il respiro, o frammentarlo.

Dalla scienza alla panchina: che cosa (non) ci dice il caso Nigeria–RD Congo

Tornando alla notte di Rabat, la sequenza sospetta vista da Chelle può essere letta – al netto di ogni giudizio di merito – come un classico “trigger” attentivo. Se io allenatore attribuisco potere a un gesto altrui, quel gesto può colonizzare il mio foco attentivo: vedrò “ogni volta, ogni volta, ogni volta”, come ha detto Chelle. È il meccanismo psicologico della salienza: ciò che temo o ricerco, lo noto di più. L’episodio, di per sé, non dimostra nulla sulla “magia”; dice però moltissimo sulla percezione in situazioni ad alto stress e su quanto sia fragile l’equilibrio mentale quando posta in gioco è massima.

Allo stesso modo, per i giocatori congolesi il rituale – se c’è stato – può aver funzionato da àncora: un micro-gesto per nutrire controllo e fiducia nel momento più incerto. Qui la letteratura sui rituali e quella sull’eccitazione funzionale al compito si incontrano: se “credo” che quel gesto mi aiuti, è più probabile che calci con il corpo allineato al compito, non alla paura.

Non solo danno: la provocazione può attivare la motivazione

C’è una nota controintuitiva che interessa gli staff. La provocazione – quando non sfocia nell’antisportivo – può anche “accendere” la motivazione dell’avversario. Studi sul trash‑talking mostrano che chi ne è bersaglio tende a percepire più rivalità e, nei compiti a base di sforzo, può addirittura migliorare la prestazione perché spinto dal desiderio di “punire” chi provoca. Tradotto in campo: una provocazione mal gestita può rimbalzare contro chi l’ha innescata.

Come si allena la mente ai rigori (e oltre): 12 indicazioni pratiche per staff e giocatori

  1. Definite un “protocollo da rigore” replicabile. Dal momento in cui l’arbitro fischia al calcio, tutto deve essere coreografato: posizione del pallone, respirazione, sguardo, rincorsa, tempo di attesa. La coerenza riduce il carico cognitivo e protegge dall’overthinking.
  2. Usate “riti buoni” come routines, non amuleti. Incorporate micro‑gesti (sistemare il calzettone, due respiri diaframmatici, parola chiave) che fungano da àncora attentiva. Costruite credenze funzionali (auto‑efficacia), non superstizioni paralizzanti.
  3. Allenate la “ricodifica” dell’ansia. Prima del tiro: “Sono eccitato”, non “Calmati”. Aggancia il corpo “attivato” a un obiettivo (“metto la palla a mezza altezza, lato destro”). È semplice, ma documentato.
  4. Simulate la pressione reale. Serie di rigori a fine seduta, con stanchezza, rumore, tempi morti, telecamere. Variate l’ordine dei tiratori e replicate i micro‑ritardi di gara: l’abitudine addomestica lo stress.
  5. Preparazione del portiere: focus su letture e routine, no a distrazioni vietate. Studiate tendenze dei tiratori, concordate segnali, allenate il “tempo di spinta” con almeno un piede sulla linea. Conoscere i limiti regolamentari evita sanzioni e rotture di ritmo.
  6. Schermo mentale” contro provocazioni. Inserite nei piani frasi‑ponte: “Torna al compito”, “Vedo e lascio andare”. Chiudete il canale visivo verso la panchina avversaria; aprite solo quello verso il pallone e il target.
  7. Gestione della panchina: un solo voce guida (capo allenatore) nei due minuti prima dei rigori; staff defilato per evitare ridondanze. È un fattore che i migliori hanno già standardizzato.
  8. Curate la sequenza dei tiratori. Alternare profili “robusti” mentalmente con specialisti tecnici; inserire almeno un “firefighter” al terzo o quarto slot, quando l’emotività sale e la serie “gira”. Sintonia con i dati storici individuali.
  9. Pre‑commitment al lato di tiro. Decidere il lato prima della rincorsa, con eventuale algoritmo di “se–allora” (se il portiere anticipa, vado alto centrale). Riduce i cambi dell’ultimo istante che la ricerca associa a errori.
  10. Debriefing immediato, protetto, senza colpe. La memoria dell’episodio influenza le serie future: fissate gli apprendimenti, non le paure.
  11. Educazione regolamentare. Tutti – staff, capitano, riserve – devono conoscere i confini: è inutile richiamare l’arbitro “a sentimento” se non si padroneggiano Legge 14 e condotte sanzionabili (incluse le “distrazioni verbali”).
  12. Piano anti‑mind games. Se emergono distrazioni borderline (borracce, gesti, bottle‑tricks), responsabilizzate il quarto ufficiale e il capitano: una segnalazione formale asciutta, poi ritorno immediato alla routine. La battaglia vera è sull’attenzione.

Oltre il caso: perché i riti funzionano (anche quando non “credete”)

C’è un paradosso che gli staff possono sfruttare: un rito funziona anche quando sappiamo che è “solo” un rito. Perché?

  1. Fornisce struttura in un contesto caotico.
  2. Incrementa il controllo percepito, riducendo l’ansia e migliorando la persistenza.
  3. Semplifica la scelta, limitando i rami decisionali in un momento di sovraccarico.
  4. Permette di “accordare” il corpo (respiro, tensione) e quindi il gesto.

Il vantaggio è quantificabile: in laboratorio, attivare superstizioni “di buona sorte” produce miglioramenti misurabili in compiti fisici e cognitivi; in campo, le squadre che istituzionalizzano routine e preparano la sparatoria mentale dei rigori aumentano la propria base di probabilità. Nessuna garanzia – il margine di errore resta alto – ma una asimmetria: più riduci il rumore, più lasci parlare la qualità.

Cosa insegna Nigeria–RD Congo agli staff

  1. Le partite si possono perdere o vincere per dettagli invisibili. Un gesto discutibile ai margini del regolamento non spiega da solo un esito; ma può bastare a deregolare chi non ha uno schermo mentale. L’episodio di Rabat lo ha mostrato con brutalità.
  2. La comunicazione post‑gara va presidiata. Spostare la narrazione sul “voodoo” può proteggere i propri calciatori nell’immediato, ma rischia di radicare alibi e spiegazioni esterne. Meglio incanalare l’analisi su routine, preparazione, scelte.
  3. Riti sì, alibi no”. Codificate rituali che costruiscano auto‑efficacia e foco; disinnescate quelli altrui con procedure, non con reazioni istintive. Ogni secondo speso a oggettare il gesto dell’altro è attenzione sottratta al compito successivo.

Epilogo: la linea sottile tra fede e scienza

L’immagine del 16 novembre 2025 resterà: Chelle trattenuto, Desabre che lo placa, la RD Congo che esulta sotto la pioggia, la Nigeria che si interroga. Il calcio continuerà a produrre riti, amuleti, gesti apotropaici: è nella sua natura. La differenza la fa come li usiamo. Perché anche quando non c’è “magia”, c’è sempre psicologia. E nel calcio dei millimetri e dei secondi, la psicologia è già da tempo una parte concreta del risultato: un asset da allenare, con la stessa cura di uno schema su palla inattiva.

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