Mondo calcio
17 Novembre 2025
Il gesto è minuscolo e, proprio per questo, magnetico: una bottiglietta che oscilla, una mano che spruzza qualcosa verso l’erba. Dall’altra parte del campo, un allenatore perde l’aplomb e scatta verso la panchina avversaria, trattenuto a fatica. È la notte di Rabat, 16 novembre 2025, la finale dei playoff africani per il Mondiale 2026. La Nigeria e la Repubblica Democratica del Congo hanno finito per affidare il proprio destino ai rigori: al termine di 120 minuti fermi sull’1-1, i Leopards vincono 4-3 e restano in corsa per il biglietto mondiale. Poi, la miccia: il ct nigeriano Éric Sékou Chelle accusa uno membro dello staff congolese di aver compiuto un “rito voodoo” durante la serie. L’allenatore della RD Congo, Sébastien Desabre, lo ferma e tenta di smorzare il caso. Il risultato sportivo passa in secondo piano: il tema, ora, è la mente. Cosa fanno le credenze e i rituali alla testa di chi deve calciare, parare, decidere? E come si gestiscono distrazioni e provocazioni quando tutto si gioca su un solo gesto?
La cronaca è netta. Frank Onyeka segna per la Nigeria al 3', Meschack Elia pareggia al 32' per la RD Congo; ai rigori decide il capitano Chancel Mbemba. Per i congolesi si apre la strada verso lo spareggio interconfederale di marzo, per la Nigeria la seconda esclusione consecutiva dalla Coppa del Mondo. È durante e subito dopo la serie dal dischetto che Chelle si infuria: racconta di aver visto un componente della panchina congolese compiere un gesto “ripetuto, ogni volta”, evocando l’ombra di un rito per influenzare l’esito dei rigori. La controparte congolesi minimizza; le immagini mostrano concitazione a bordocampo, con Desabre ad allontanare fisicamente l’avversario. Sul piano dei fatti, la RD Congo avanza allo spareggio, la Nigeria si ferma. Sul piano simbolico, si accende una vecchia domanda: superstizione e sport, quanto contano?
Nel quadro africano, le nove prime dei gironi hanno già staccato il pass: fra le altre, Egitto, Marocco, Tunisia, Algeria, Ghana, Capo Verde, Sudafrica, Senegal e Costa d’Avorio. La RD Congo, superando la Nigeria, accede al torneo a sei squadre che a marzo 2026 in Messico assegnerà due posti per USA–Canada–Messico 2026. Per i Leoni Verdi, l’ultimo Mondiale resta quello del 1974 quando il Paese si chiamava Zaire: l’orizzonte di un ritorno dopo 51 anni spiega la temperatura emotiva della notte di Rabat.
In superficie, i rituali sono folclore. In profondità, sono strumenti psicologici. La letteratura scientifica è sorprendentemente concorde: attivare una credenza di “buona sorte” può migliorare la prestazione perché aumenta la auto‑efficacia e la fiducia. Già nel 2010, gli studi della Università di Colonia (autori Lysann Damisch, Barbara Stoberock, Thomas Mussweiler) dimostravano che il semplice “attivare” la superstizione – restituendo un portafortuna o augurando “in bocca al lupo” – migliora risultati in compiti di destrezza, memoria, problem solving. Non c’è magia: c’è più fiducia, obiettivi più alti, maggiore persistenza.
Più in generale, la ritualità riduce l’ansia perché crea controllo percepito: una sequenza ripetuta e familiare incanala l’attivazione fisiologica e placa i pensieri intrusivi. È uno dei tasselli della gestione dell’arousal: il corpo resta “acceso”, ma la testa regge. In parallelo, la psicologa Alison Wood Brooks ha mostrato come “ricodificare” l’ansia come eccitazione – dirsi “sono eccitato”, non “devo calmarmi” – migliori performance in compiti ad alta pressione come cantare, parlare in pubblico o risolvere problemi matematici. La chiave è spostare il mindset dalla minaccia all’opportunità. In una serie di studi pubblicati tra 2013 e 2014, chi si dichiarava “eccitato” cantava meglio, parlava in modo più persuasivo e risolveva più problemi: una strategia semplice, “a costo zero”, applicabile anche ai rigori.
Infine, c’è l’“effetto contagio”: credere che un attrezzo appartenga a un campione può migliorare la resa – un classico nel golf – perché trasferiamo simbolicamente qualità dell’idolo sull’oggetto. È un altro modo con cui la mente converte una credenza in fiducia operativa.
Il rigore, più di ogni gesto, comprime tecnica, routine e nervi. Il norvegese Geir Jordet, tra i massimi studiosi della psicologia dei rigori, lo ripete da vent’anni: non è una lotteria, vince chi prepara anche i dettagli che non si vedono. Dalle sue analisi emerge, per esempio, che chi “si affretta” dopo il fischio dell’arbitro sbaglia più spesso; che una struttura mentale e comportamentale coerente – tempi, respiro, sguardo, posizionamento del pallone – aumenta le probabilità di successo; che anche i portieri possono alterare l’equilibrio con strategie di distrazione entro i limiti del regolamento.
Gli esempi abbondano: dal “balletto” di Andrew Redmayne (Australia) allo “studio” delle tendenze degli avversari inciso sulle borracce dei portieri, fino alle evoluzioni metodologiche di nazionali che hanno trasformato le proprie abitudini. Non a caso federazioni come l’FA inglese hanno blindato la comunicazione sulle pratiche al dischetto per evitare che trapelino routine e protocolli psicologici, divenuti patrimonio strategico tanto quanto schemi e moduli.
La domanda, a questo punto, è cruciale: cosa è lecito per “spostare” la mente dell’avversario? Il regolamento si è mosso. Con gli aggiornamenti IFAB 2023/24 e successive puntualizzazioni, ai portieri è vietato “distrarre slealmente” il tiratore: devono restare sulla linea, rivolti al calciatore, senza toccare pali, traversa o rete, né ritardare l’esecuzione. È un segno dei tempi: la componente psicologica dello scontro dagli 11 metri è così centrale da richiedere cornici più chiare. E non vale solo per i portieri: anche la “distrazione verbale” rientra tra le condotte sanzionabili come comportamento antisportivo.
La realtà, tuttavia, è più sfumata: molte condotte cadono in “zone grigie” – piccoli rituali, posture, scambi di sguardi, micro-ritardi – che non sempre superano la soglia del punibile. È in questo spazio che i riti (autoprodotti o “subiti”) diventano armi mentali: possono sostenere la fiducia di chi calcia, o scalfirla; stabilizzare il respiro, o frammentarlo.
Tornando alla notte di Rabat, la sequenza sospetta vista da Chelle può essere letta – al netto di ogni giudizio di merito – come un classico “trigger” attentivo. Se io allenatore attribuisco potere a un gesto altrui, quel gesto può colonizzare il mio foco attentivo: vedrò “ogni volta, ogni volta, ogni volta”, come ha detto Chelle. È il meccanismo psicologico della salienza: ciò che temo o ricerco, lo noto di più. L’episodio, di per sé, non dimostra nulla sulla “magia”; dice però moltissimo sulla percezione in situazioni ad alto stress e su quanto sia fragile l’equilibrio mentale quando posta in gioco è massima.
Allo stesso modo, per i giocatori congolesi il rituale – se c’è stato – può aver funzionato da àncora: un micro-gesto per nutrire controllo e fiducia nel momento più incerto. Qui la letteratura sui rituali e quella sull’eccitazione funzionale al compito si incontrano: se “credo” che quel gesto mi aiuti, è più probabile che calci con il corpo allineato al compito, non alla paura.
C’è una nota controintuitiva che interessa gli staff. La provocazione – quando non sfocia nell’antisportivo – può anche “accendere” la motivazione dell’avversario. Studi sul trash‑talking mostrano che chi ne è bersaglio tende a percepire più rivalità e, nei compiti a base di sforzo, può addirittura migliorare la prestazione perché spinto dal desiderio di “punire” chi provoca. Tradotto in campo: una provocazione mal gestita può rimbalzare contro chi l’ha innescata.
C’è un paradosso che gli staff possono sfruttare: un rito funziona anche quando sappiamo che è “solo” un rito. Perché?
Il vantaggio è quantificabile: in laboratorio, attivare superstizioni “di buona sorte” produce miglioramenti misurabili in compiti fisici e cognitivi; in campo, le squadre che istituzionalizzano routine e preparano la sparatoria mentale dei rigori aumentano la propria base di probabilità. Nessuna garanzia – il margine di errore resta alto – ma una asimmetria: più riduci il rumore, più lasci parlare la qualità.
L’immagine del 16 novembre 2025 resterà: Chelle trattenuto, Desabre che lo placa, la RD Congo che esulta sotto la pioggia, la Nigeria che si interroga. Il calcio continuerà a produrre riti, amuleti, gesti apotropaici: è nella sua natura. La differenza la fa come li usiamo. Perché anche quando non c’è “magia”, c’è sempre psicologia. E nel calcio dei millimetri e dei secondi, la psicologia è già da tempo una parte concreta del risultato: un asset da allenare, con la stessa cura di uno schema su palla inattiva.