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30 Novembre 2025
Padre Eligio e Gianni Rivera
La notte della Coppa dei Campioni del 1969, alzata al cielo del Bernabéu, si porta dietro un sussurro che non finisce sul tabellino: il capitano del Milan, Gianni Rivera, dedica il trionfo anche a un frate con i Ray-Ban che da anni gli sussurra all’orecchio di guardare oltre i riflettori. Quel frate è padre Eligio Gelmini. Lì, dove il calcio pretende eroi, l’eroe indica altrove: ragazzi senza rete, telefonate anonime nel cuore della notte, comunità costruite pietra su pietra. Oggi che padre Eligio non c’è più — è morto a 94 anni il 29 novembre 2025 — resta la traiettoria di un incontro capace di spostare il baricentro del pallone, dalla gloria al servizio.
Nel Convento di Sant’Angelo a Milano il francescano Angiolino “Eligio” Gelmini sperimenta prima l’ascolto, poi l’accoglienza. La città attorno cambia velocemente: al boom economico si sovrappone l’ombra dell’eroina. Negli anni Sessanta e Settanta lui è al contempo presenza in Curva e presenza in strada: a San Siro lo chiamano “Frate by night” o “Fratel dribbling”, perché non perde una partita dei rossoneri e perché non ha paura di sporcarsi le mani fuori dallo stadio. È in quel doppio registro — la folla del calcio e la solitudine delle notti milanesi — che nasce il suo legame con Rivera e con il Milan, di cui diventa consigliere e padre spirituale.
Il filo con Rivera si annoda presto. È un dialogo che attraversa decenni: dal primo incontro su giovani e responsabilità, al Milan di Nereo Rocco, fino alle visite del “Golden Boy” nelle comunità. Le cronache ricordano che, conquistata la Coppa dei Campioni nel 1969, Rivera volle rivolgere la sua dedica allo stesso padre Eligio, riconoscendogli l’impronta profonda su una squadra e su un’epoca. La cosa non restò un gesto isolato: per i ragazzi delle comunità, Rivera divenne spesso un volto amico chiamato a parlare di rispetto, disciplina, dignità. In quelle stanze l’idolo lasciava spazio all’uomo, il campione al testimone.
La morte di padre Eligio ha risvegliato ricordi che non sono nostalgia, ma radici: una Milano che imparava a dire “noi” anche quando la città contava i primi morti di overdose; un calcio capace di ascoltare un frate anticonformista. Dai necrologi emerge l’immagine completa: fondatore di Telefono Amico nel 1964, pioniere di Mondo X dal 1967, guida spirituale del Milan negli anni Sessanta e Settanta, amico fraterno di Gianni Rivera. Nato nel 1931 a Bisentrate (Pozzuolo Martesana), era fratello minore di don Pierino Gelmini, fondatore delle Comunità Incontro: due percorsi differenti, identica urgenza di frontiera.
La prima porta che padre Eligio spalanca è fatta di suonerie e respiri esitanti: Telefono Amico nasce a Milano il 16 gennaio 1964 in via Copernico 57, con un apparecchio e cinque linee. È un’idea semplice e radicale: rispondere a chi non ha più nessuno cui parlare, 24 ore su 24. In archivio resteranno pagine fitte di appunti e storie: una città che impara a chiedere aiuto, operatori che imparano a non giudicare. Il servizio cresce, si moltiplicano linee e turni: diverse ricostruzioni parlano oggi di un ampio bacino di ascolto e di volontari, a testimonianza della vitalità di un’intuizione che ha attraversato i decenni.
Quando l’eroina fa irruzione nella vita milanese, padre Eligio cambia passo. Nel 1967 avvia Mondo X, un progetto che è prima un nome e subito dopo una geografia della cura: Milano, Cozzo (Pavia), l’Isola di Formica nell’arcipelago delle Egadi, Cetona (Siena), persino Monte Tabor, in Israele. Qui si sperimenta una vita comunitaria essenziale, fatta di lavoro, regole, luce e ordine: ripartire per ritrovarsi. È un modello che più tardi verrà riconosciuto come “rete di comunità”, molto prima che il termine entrasse nei manuali del welfare.
Perché una storia così riguarda lo sport? Perché, per una volta, lo sport non è solo metafora. In quegli anni il Milan è una squadra-pilota, e il legame con padre Eligio non si consuma nella retorica del “gruppo unito”. Il frate entra negli spogliatoi e, soprattutto, accompagna i giocatori fuori, verso Mondo X. Lo si vede spesso a San Siro: cappotto scuro, Ray-Ban, stivaletti alla Beatles. La sua presenza, che qualcuno giudica fuori dagli schemi, diventa invece un segnale: si può benedire una squadra e, nello stesso tempo, benedire la periferia. Il calcio, grazie a figure come Rivera, diventa veicolo di visibilità per i progetti sociali.
La relazione fra padre Eligio e Rivera non si esaurisce con i trofei. È fatta di visite, conversazioni, mani sulle spalle ai ragazzi delle comunità. Nelle ricostruzioni di questi giorni affiora l’eco di quel patto: usare il talento non per vincere, ma per servire. Lo dimostrano episodi e immagini: tavole imbandite con Nereo Rocco e Cesare Maldini, il “Paròn” che si confronta con il frate, il capitano che torna in comunità anche a carriera finita. Quando il calcio di oggi parla di “valori” e “responsabilità sociale”, quella genealogia è già scritta nella storia rossonera.
Il punto fermo, consegnato alla memoria, rimane la dedica della Coppa dei Campioni del 1969: un gesto che gli stessi quotidiani sportivi richiamano ancora, perché racconta meglio di mille slogan la qualità del legame. In Rivera c’era la consapevolezza che il successo senza sguardo sul mondo non basta. In padre Eligio c’era la fiducia di chi sa chiedere al calcio non una passerella, ma una mano tesa. È in quella reciprocità che lo sport diventa carità: non un’elemosina, ma una scelta di prossimità.
Una biografia onesta non evita le pieghe. Padre Eligio fu figura anche controversa, capace di suscitare consenso e critiche. La sua frequentazione dell’alta società milanese gli costò rimproveri, e la sua vicenda toccò anche pagine giudiziarie negli anni Settanta. Resta però, sul piano storico, il lascito di Telefono Amico e delle comunità di Mondo X, e soprattutto la percezione — restituita da più fonti — di un prete “d’assalto” che non voltò lo sguardo davanti all’emergenza eroina. È su questo terreno concreto che lo sport lo ha incontrato e sostenuto.
Che cosa ha portato il calcio a queste storie? Innanzitutto, visibilità. Un campione come Rivera, Pallone d’Oro 1969, è un magnete: in una sala comunitaria, la sua presenza fa crollare diffidenze e accende curiosità. C’è poi la credibilità: quando un capitano racconta ai ragazzi la fatica di restare fedeli a un impegno, quelle parole pesano. Infine, c’è la continuità: il legame non fu un selfie ante litteram, ma una frequentazione lunga, come documentano gli scatti e i ricordi riportati in queste ore. Il risultato? Un modello che oggi, con altre forme, resta attualissimo: lo sport professionistico come alleato strutturale di chi lavora su dipendenze, isolamento, fragilità.
L’assenza di padre Eligio interroga il calcio di oggi, dove campagne valoriali e fondazioni dei club hanno preso il posto dei carismi individuali. È un bene: i programmi stabili portano risorse e metodo. Ma la potenza di quella stagione sta nella relazione personale: un frate che sceglie la tribuna di San Siro e un capitano che sceglie il silenzio di una comunità. Da una parte la rete (di volontari, educatori, terapeuti), dall’altra la rete di una porta: entrambe salvano, in modi diversi. Tenere insieme le due cose — organizzazione e carisma — è la sfida del presente. Le storie di Telefono Amico e Mondo X ricordano che l’innovazione sociale non nasce per decreto, ma da un’intuizione che cresce perché qualcuno ci mette il volto.
Nel saluto di queste ore, colpisce la convergenza dei racconti: il Milan come terreno neutro dove un frate e un campione imparano a riconoscersi; la città che da 1964 in poi scopre l’importanza di un numero di telefono che risponde; una rete di comunità che dall’Isola di Formica al Monte Tabor fa della geografia una terapia. Forse il modo migliore per ricordare padre Eligio è non disperdere questa eredità: chiedere ai nostri campioni di rimettersi in gioco, non solo sul campo, e ai nostri club di usare la loro forza non per sostituirsi al pubblico, ma per allearlo a chi sta già lavorando. Lo sport, quando incontra la carità, non è beneficenza: è una scommessa sul destino dell’altro.
In definitiva, i numeri servono a fissare: 1964, l’anno del telefono che ascolta; 1967, l’anno della comunità che accoglie; 1969, l’anno del trofeo diventato gesto di fraternità. I luoghi aiutano a ricordare: il Convento di Sant’Angelo, San Siro, Cozzo, l’Isola di Formica, Cetona, Monte Tabor. Ma sono i volti — Eligio, Rivera, Rocco, Maldini — a dire la sostanza: quando lo sport incontra la carità, lo fa nella concretezza delle biografie. Ed è lì che il calcio, il nostro calcio, può tornare a essere popolare nel senso più alto: una cosa di tutti, a partire dagli ultimi.