Trendy news
01 Dicembre 2025
"Kaiser Rasposo" (al centro della foto)
Se ti raccontano di un attaccante che ha girato undici club, dal Brasile alla Corsica, passando per il Messico e il Texas, firmando contratti, posando nelle foto ufficiali, vivendo nei ritiri… e che però non ha praticamente mai giocato una partita vera, pensi subito a una leggenda da bar.
Invece no: il suo nome all’anagrafe è Carlos Henrique Raposo, ma il mondo del pallone lo conosce come Carlos Kaiser, “il più grande impostore della storia del calcio”, come lo definiscono articoli, libri e perfino un documentario che gli è stato dedicato.
Il tuo “Kaiser Rasposo” è lui: Rasposo è solo una storpiatura del cognome Raposo. Il soprannome Kaiser glielo hanno appiccicato addosso da ragazzo, per una vaga somiglianza con Franz Beckenbauer – e perché in Brasile, negli anni Settanta, chiamare Kaiser un difensore elegante era quasi un atto dovuto. Poi Carlos si è tenuto il nomignolo ma ha cambiato ruolo: non più difensore, bensì centravanti fantasma.
Il suo curriculum ufficioso è una specie di tour turistico del calcio latino: Botafogo, Flamengo, Fluminense, Vasco da Gama, Bangu, America-RJ in Brasile, più Puebla in Messico, Gazélec Ajaccio in Francia e perfino gli El Paso Sixshooters nel campionato indoor statunitense.
Nei registri ufficiali, però, di minuti giocati ce ne sono pochissimi, talvolta nessuno: molte cronache parlano di tredici anni di carriera e zero partite di campionato, o comunque “nessuna gara regolare” disputata davvero.
Quello che c’è in mezzo è la parte interessante: un trucco lungo una vita, costruito con lo stesso mestiere con cui un buon regista prepara la scena prima che si accendano le luci.
Per capire Kaiser bisogna immaginare Rio de Janeiro negli anni Ottanta. Le notti dei locali di Copacabana, la musica a volume alto, la voglia di dimenticare problemi politici e crisi economiche, i calciatori che diventano i re della città appena il sole tramonta.
Kaiser è lì, galleggia tra night club e spogliatoi, amico dei giocatori veri: Romário, Bebeto, Renato Gaúcho, Edmundo, Ricardo Rocha. Non è un fuoriclasse, ma è uno che sa parlare, sa divertirsi, sa ascoltare. E soprattutto sa rendersi utile: organizza feste, presenta persone, porta allegria.
In quel microcosmo, la parola che vale di più non è “gol” ma “indicação”: la raccomandazione. Un campione dice al presidente: «Prendi Kaiser, è uno di noi». E il presidente, che non vuole contrariarlo, lo prende. Contratti brevi, sei mesi, giusto il tempo per vedere “se esplode”.
È qui che Carlos Raposo smette di inseguire il sogno del calciatore e comincia a coltivare quello dell’impostore: fare la vita del professionista senza dover sopportare il giudizio del campo.
La truffa, se vogliamo chiamarla così, è quasi artigianale. Non ci sono algoritmi, non c’è finanza creativa. Solo psicologia, faccia tosta e molta regia.
Le sue “mosse base”, ricostruite da articoli, interviste e dal documentario Kaiser! The Greatest Footballer Never to Play Football, sono più o meno queste:
Contratto corto, promessa lunga
Arriva in un club, spesso grazie alla raccomandazione di un amico famoso. Firma un contratto di pochi mesi e da subito chiede: «Ho bisogno di lavorare sulla forma fisica».
In quella fase si allena duramente… ma solo dal punto di vista atletico. Corse, scatti, palestra: lì se la cava. Così, a vederlo, sembra davvero un giocatore pronto a esplodere.
L’infortunio programmato
Il problema arriva quando è ora di toccare il pallone. Appena si passa alle partitelle, Kaiser sente tirare il bicipite femorale, si ferma, si tocca la coscia con la faccia di chi la sa lunga: strappo muscolare.
Negli anni Ottanta la risonanza magnetica non era di casa nei club brasiliani: un dolore alla coscia è un dolore alla coscia, e se lo dice il giocatore, il medico sospira e compila il referto. Kaiser, raccontano le cronache, aveva persino un dentista compiacente che certificava misteriose infezioni in altre parti del corpo per allungare i tempi.
Il medico, il giornalista e il telefonino finto
Per tenere in piedi la farsa serve una rete. Kaiser si mette in tasca un medico che conferma gli infortuni, ma anche alcuni giornalisti amici che scrivono articoli su di lui: in uno di questi, sostiene che il club messicano Puebla gli avrebbe persino proposto la cittadinanza per farlo giocare in nazionale.
Ciliegina sulla torta: un telefono cellulare finto – giocattolo o comunque non funzionante – in un’epoca in cui averne uno vero era roba da milionari. Kaiser cammina per il campo con quell’oggetto all’orecchio, risponde in un inglese approssimativo, rifiuta ad alta voce offerte di presunti club europei: «No, sto bene qui». I dirigenti lo sentono, si convincono di avere in casa un giocatore richiesto in mezza Europa.
Il club successivo
Quando finalmente l’allenatore si stanca, il contratto finisce o qualcuno inizia a sospettare, Kaiser fa ciò che ogni buon truffatore fa: sparisce. Ma non nel nulla: riappare in un’altra squadra, spesso seguendo il trasferimento di un amico o una dritta di un procuratore compiacente.
Così, passo dopo passo, si costruisce una carriera fatta di firme, maglie e fotografie. La palla, il più delle volte, rimane un dettaglio.
Fra gli episodi più raccontati c’è la parentesi francese. Nella mitologia di Kaiser, nel 1986 lui approda al Gazélec Ajaccio, in Corsica.
La storia che gira è perfetta per un film: lo stadio pieno, i tifosi curiosi di vedere il nuovo bomber brasiliano in un allenamento aperto al pubblico. Kaiser entra in campo, ma invece di controllare il pallone, scaraventa tutte le pallonate verso gli spalti, una dopo l’altra, regalando souvenir alla curva e baciando ripetutamente lo stemma sulla maglia. Così, dicono, evita di dover fare davvero qualcosa di tecnico sotto gli occhi della gente.
La cosa interessante è che su Ajaccio le versioni si contraddicono. Alcune ricostruzioni sostengono che non abbia mai giocato davvero lì, che ci siano solo foto scattate in un campetto di Rio con la maglia corsa prestata da un amico, usate poi come “prova” della sua esperienza europea.
È il cuore del “caso Kaiser”: tra realtà, mitologia e auto-narrazione, il confine si assottiglia fino quasi a sparire. Ma proprio questa ambiguità lo rende un personaggio perfetto da raccontare.
Se Osvaldo Soriano avesse dovuto scegliere una scena madre, probabilmente sarebbe questa: uno stadio caldo di periferia, una squadra in svantaggio, un boss di quartiere che urla dalla tribuna.
Siamo al Bangu, club carioca a forti radici popolari. Il principale padrino della squadra è Castor de Andrade, figura a metà tra il dirigente e il capo della mala, potentissimo nel suo quartiere. Kaiser è lì, a libro paga, e come al solito si allena, chiacchiera, cura i rapporti. Ma non gioca mai.
Un giorno Bangu sta perdendo 2-0. Castor si stufa di vedere quell’attaccante sempre in panchina e ordina all’allenatore: «Metti dentro Kaiser». Ordine, non richiesta.
Carlos si alza, inizia il riscaldamento a bordo campo. È il punto di non ritorno: se entra, la bugia si squaglia. E allora inventa l’ennesimo colpo di scena. Secondo molte ricostruzioni, individua un gruppo di tifosi che insultano la squadra e si scaglia contro di loro, genera una rissa e viene espulso prima ancora di mettere piede in campo. Cartellino rosso, doccia, referto dell’arbitro.
Dopo la partita, Castor lo convoca. Kaiser, raccontano, gli dice una frase che sembra uscita da un racconto di Soriano:
«Dio mi ha dato un padre che è morto. Poi me ne ha dato un altro (tu). Non potevo lasciare che qualcuno ti chiamasse ladro, per questo sono intervenuto».
La storia vuole che Castor si sia commosso e invece di cacciarlo gli abbia rinnovato il contratto per altri sei mesi. Un rosso senza aver giocato un minuto, trasformato in aumento di stipendio: se non è letteratura, poco ci manca.
Il fascino di Kaiser sta anche nel suo profilo umano. Quasi tutti quelli che lo hanno conosciuto, da compagni di squadra a giornalisti, dicono che fosse un tipo generoso, affettuoso, un amico affidabile. Non beveva, aiutava compagni con problemi di alcol, faceva da “angelo custode” a chi era più fragile di lui. Proprio per questo, ad esempio, il Vasco da Gama pare lo avesse ingaggiato per stare vicino a un calciatore con seri problemi di dipendenza.
Kaiser è stato un truffatore? Sì, perché ha ingiustamente incassato stipendi da professionista senza offrire la prestazione per cui veniva pagato.
Ma è anche il prodotto di un calcio in cui chi ha la parola giusta nel momento giusto, l’amico giusto al telefono, la storia giusta da raccontare, spesso vale più di chi corre e basta.
Nei racconti dei suoi amici famosi, Kaiser appare come un giullare di corte necessario, uno che riempie le notti dell’élite calcistica di Rio di risate e aneddoti, mentre fuori dallo stadio i ragazzini veri si giocano le caviglie sui campi polverosi per un provino.
A un certo punto, la sua storia diventa troppo buona per restare confinata ai bar di Rio.
Nel 2018 escono un documentario, Kaiser! The Greatest Footballer Never to Play Football, e un libro del giornalista Rob Smyth con lo stesso titolo. Entrambi raccontano la parabola del centravanti fantasma, intrecciando interviste, immagini d’archivio e testimonianze di stelle del calcio brasiliano come Zico, Carlos Alberto Torres, Bebeto, Renato Gaúcho.
Molti critici sottolineano proprio questo: la storia di Kaiser è in parte documentata e in parte mitizzata, e lui è il primo a godere nel confondere i due piani. Alcuni episodi, come l’esperienza ad Ajaccio o certi numeri di gol che avrebbe segnato chissà dove, non tornano con gli archivi ufficiali. Altre scene, come la rissa a Bangu o il telefonino finto, sono raccontate da più fonti indipendenti e appaiono plausibili, anche se i dettagli cambiano a seconda di chi li narra.
Insomma: Carlos Kaiser è metà uomo, metà racconto orale, un po’ come quei personaggi del realismo magico sudamericano che Osvaldo Soriano avrebbe amato – quelli che dicono di aver sfidato Pelé sotto la pioggia o di aver segnato un gol in rovesciata che nessuno ha filmato.
E arriviamo alla domanda chiave: ha davvero truffato “tutte” le società e giocato zero minuti?
Qui la risposta, se vogliamo essere onesti, è: quasi.
Le fonti serie concordano su alcuni punti:
Kaiser non ha mai disputato una “regular game” di livello, cioè partite ufficiali di campionato o coppa ad alto livello, con minutaggio e statistiche registrate.
In qualche caso potrebbe aver giocato amichevoli, allenamenti con pubblico, spezzoni di gare minori di cui non esistono registri precisi.
Gli sono attribuiti un’espulsione senza aver toccato palla (il famoso episodio di Bangu) e una serie di presenze “sulla carta” in rose dove il suo nome compare ma i tabellini non registrano minuti in campo.
Dunque sì, l’immagine del “calciatore che ha vissuto di ingaggi senza giocare” regge, almeno a grandi linee. Parlare di “zero minuti assoluti” è forse una semplificazione giornalistica, ma non stravolge il senso della vicenda: Kaiser ha costruito la propria carriera proprio su quello che non faceva in campo.
La domanda finale, quella che Soriano avrebbe infilato nell’ultima pagina con un mezzo sorriso, è questa: era solo un truffatore o un sintomo del calcio che lo ha generato?
Kaiser sfrutta una serie di crepe del sistema:
club poco professionali nella gestione medica,
dirigenti che si fidano più delle amicizie che degli osservatori,
giornali pronti a trasformare in leggenda una mezza storia ascoltata al bar,
un ambiente in cui apparire conta spesso più che essere.
Lui ci mette il resto: corpo da atleta, faccia da attore, lingua da venditore, e un talento quasi letterario nel riscrivere ogni episodio in modo che lo favorisca.
Oggi, alla luce dei libri e dei documentari, Carlos Kaiser viene ricordato come “il più grande truffatore della storia del calcio”, ma anche come una sorta di anti-eroe romantico, il simbolo di un’epoca in cui il pallone era sì passione e sudore, ma anche teatro, finzione, maschere.
Forse è per questo che, nonostante tutto, in molti finiscono per guardarlo con una certa indulgenza: ha rubato al calcio minuti, non titoli, stipendi, non trofei. Non ha falsificato risultati, non ha truccato partite: ha truccato se stesso.
Oggi Kaiser è un signore che ha superato i sessant’anni. Si presta alle interviste, partecipa alle proiezioni del film che lo racconta, ride dei propri aneddoti e li ritocca ogni volta un po’, come fanno i vecchi attori con le battute migliori.
Alla fine, la sua storia resta sospesa fra archivio e invenzione, come una palla che non cade mai a terra.
Per gli storici del calcio, Kaiser è un caso di studio: dimostra come, in un certo tempo e in un certo luogo, fosse possibile campare di reputazione e storytelling più che di rendimento.
Per chi ama le storie, invece, è qualcos’altro: è il protagonista perfetto di un racconto alla Soriano, uno di quelli che cominciano in un bar di Rio con un vecchio giornalista che dice:
«Ti ho mai parlato di quel centravanti che non giocava mai? Si chiamava Kaiser…»