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05 Dicembre 2025
C’è un’immagine che racconta più di molte parole: sono passate solo due giornate di campionato, è il 4 settembre 2025, e al De Cristofaro di Giugliano un allenatore saluta lo spogliatoio per l’ultima volta. Si chiama Gianluca Colavitto e la sua è la panchina più veloce a saltare quest’anno tra i professionisti: via in 48 ore di campionato, sostituito da Mirko Cudini. La notizia è rimbalzata ovunque perché il tempo è record, ma anche perché fotografa un clima: in Serie C le panchine sono un filo teso, e a ogni scossone si spezza qualcuna. Un monitoraggio di inizio stagione di TuttoC.com ha contato già 18 cambi complessivi in 16 club quando ancora non erano passati tre mesi di calendario. Un club su quattro, più o meno. Ogni turno, quasi, “ne salta una”.
Questi tre fotogrammi (Giugliano ×3, Perugia ×3 e l’esonero più rapido) restituiscono bene la trama. Ma il “valzer” non è confinato a due piazze. Le rassegne “tutte le panchine” aggiornate a metà ottobre e poi a metà novembre fotografano un elenco in continua riscrittura: Sorrento cambia tecnico il 18 novembre 2025 (via Mirko Conte), il Benevento saluta Gaetano Auteri l’11 novembre, l’Arzignano archivia Giuseppe Bianchini il 4 novembre. Tutto in un mese che, stagione dopo stagione, diventa il vero spartiacque.
Nel calcio professionistico italiano il risultato resta il primo e spesso l’unico misuratore del lavoro. Il punto è che la finestra temporale entro cui viene giudicato un allenatore si è accorciata: poche settimane, a volte pochi giorni. È una dinamica autoalimentata: budget stretti, campionati livellati, playoff e playout che moltiplicano gli obiettivi e, soprattutto, una percezione — non sempre suffragata dai dati — che il cambio in panchina dia una scossa immediata. Alcune analisi mostrano che in molte stagioni la media punti migliora nell’immediato dopo l’esonero, alimentando l’idea che “cambiare conviene”. Il problema è che l’effetto spesso si esaurisce: senza una struttura che protegga i processi, il ritorno alla media è dietro l’angolo.
La storia del Giugliano è esemplare: azzeramento lampo per divergenze tra allenatore e dirigenza, poi una seconda svolta a ottobre. Quando i confini decisionali non sono chiari — chi guida l’area tecnica? chi detta la linea sul mercato? — l’allenatore diventa il fusibile. È una forma di semplificazione: cambiare la persona più esposta e “sostituibile” sembra risolvere il problema. Ma se la causa è strutturale (organizzazione, scouting, modello di gioco assegnato a profili non coerenti), l’esonero è solo un rinvio della crisi. A Perugia, ai ribaltamenti in panchina si affianca il rientro di figure forti alla voce “consulenti” per ridefinire la rotta. Chi decide cosa? Il confine, oggi, è il tema.
Un club retrocesso o appena rialzato dai guai chiede spesso subito il ritorno al vertice. A parole si invoca il progetto, nei fatti si inseguono strisce di risultati immediate. È qui che la narrazione tradisce le intenzioni. Il Perugia della scorsa stagione ha chiuso in zona playoff; ripartire con una rosa rivista e un girone più competitivo, pretendendo lo stesso passo a settembre, è un compito complesso. Se il “piano” prevedeva fisiologici alti e bassi, la pazienza andava messa in conto. Al contrario, il termometro della classifica ha dettato legge.
Non secondario l’aspetto economico. In Serie C, dove i diritti tv non coprono tutto e gli stadi pieni non sono garantiti, i club fanno i conti con contratti brevi, clausole di uscita e staff leggeri. Esonerare può sembrare meno oneroso che scommettere su un mercato di gennaio o su una revisione dell’area scouting. Al tempo stesso, l’effetto collaterale è un percorso tecnico a singhiozzo: l’allenatore subentrante eredita una rosa pensata per un altro, e a sua volta pensa a gennaio in ottica diversa, spostando mediamente 3–5 profili chiave. In pochi mesi, l’idea iniziale è evaporata.
La categoria è spietata: gironi lunghi, campi e contesti molto differenti, trasferte impegnative e un livello medio cresciuto. Il margine tra la squadra che viaggia al quinto posto e quella che ha bisogno di punti salvezza è spesso ridottissimo. Di qui la tentazione di toccare la variabile più “rapida”: la panchina.
Quando questi elementi mancano, il cambio diventa cosmesi: migliora l’impatto mediatico, ma non risolve.
Il paradosso è qui: si invoca il progetto e, insieme, si pretende che il progetto acceleri subito. La storia recente della categoria dice che le squadre promosse direttamente hanno quasi sempre tenuto lo stesso allenatore per l’intera stagione. Non è una formula magica, ma è indizio forte: per sedimentare un’idea di gioco servono mesi, non settimane. L’urgenza di classifica è un fatto, ma trasformarla in panico non aiuta. E i club che riescono a schermarsi dalle oscillazioni del calendario, pagando il prezzo di qualche settimana scomoda, di solito ne raccolgono i frutti.
Il calendario porterà altre decisioni. Ma le piazze che hanno cambiato presto sono chiamate a un passo in più: non basta sostituire il timoniere, occorre raddrizzare la rotta con strumenti che non siano il solo annuncio. Il Giugliano di Capuano dovrà trovare presto un’identità corta e pragmatica per risalire la classifica; il Perugia di Tedesco ha bisogno di stabilità oltre che di risultati, perché una squadra che si percepisce sotto esame perenne fatica a esprimersi.
La lezione — impopolare, ma necessaria — è che il cambio in panchina dovrebbe essere l’ultima mossa di un processo razionale: prima diagnosi, poi cura; prima il perché, poi il chi. Finché l’ordine rimarrà invertito, continueremo a raccontare esoneri lampo, panchine a tre firme in 90 giorni, e un campionato dove il “qui e ora” divora il “domani”. E a ogni turno, davvero, sarà sempre più facile che “ne salti una”.