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06 Dicembre 2025
Il salone di casa è silenzioso, ma la scena taglia l’aria come una lama: l’ex centrocampista si ferma, alza gli occhi e dice senza tremare. “Quando lo guardo, non vedo un uomo. Vedo un serpente.” La voce è di Yaya Touré, il destinatario è Pep Guardiola. Non un diverbio d’antan riesumato per nostalgia, ma un nuovo capitolo di una frattura che continua a pulsare sotto la pelle del calcio contemporaneo. In un’intervista recente, Touré torna a raccontare la propria esperienza con l’allenatore più influente degli ultimi quindici anni, accusandolo di averlo trattato “come polvere”, di averlo relegato ai margini per una stagione intera, e svelando un retroscena sorprendente: dopo i Mondiali del 2010, Guardiola lo avrebbe chiamato per convincerlo a restare o rientrare al Barcellona. Parole dure, che chiedono di essere messe in fila con la cronologia, i dati, le scelte tecniche e le reazioni pubbliche dei protagonisti.
Le dichiarazioni di Yaya Touré sono arrivate nel corso di una conversazione sul canale YouTube “ZACK” e hanno fatto rapidamente il giro del mondo calcistico. L’ex ivoriano definisce Guardiola “un serpente” e afferma di essersi sentito umiliato: “Mi ha fatto giocare pochissimo per un anno; poi, dopo che brillai al Mondiale, mi chiamò dicendo che era importante tornare.” Nello stesso racconto, Touré cita la moglie, decisiva – a suo dire – nella scelta di dire addio a Barcellona e accettare Manchester City: “Aveva ragione lei: ‘Ti ha trattato come uno straccio, andiamo a Manchester’.” Queste frasi sono state riprese e contestualizzate da testate internazionali come Goal.com, Marca, AS e Cadena SER, che hanno ricostruito l’insieme dei passaggi dalla Catalogna all’Etihad, con i momenti di massima frizione e i (mancati) riavvicinamenti successivi.
Tra il 2007 e il 2010, Touré vive tre stagioni in blaugrana. È parte della macchina perfetta che, sotto Guardiola, firma il Triplete nel 2008-09 e il “sextete” nell’anno solare 2009. Touré arriva a giocare persino da difensore centrale nella finale di Champions League 2009 contro il Manchester United, contribuendo allo 0-2 di Roma. Ma la sua centralità nel progetto cambia quando il giovanissimo Sergio Busquets scala le gerarchie al centro del campo. I numeri aiutano a capire: nel 2009-10 Touré mette insieme 37 presenze complessive con il Barcellona, di cui 23 in Liga, con appena una rete; in campionato, le gare da titolare calano sensibilmente rispetto all’anno precedente e diverse fonti ricordano che furono circa una decina le sue partenze dal 1’. Una riduzione di ruolo che si traduce nella sensazione, più volte ribadita da Touré, di essere diventato “polvere” nelle rotazioni del tecnico.
Non si tratta solo di percezioni: le statistiche ufficiali del FC Barcelona e i database indipendenti confermano la contrazione del minutaggio nel 2009-10 (minuti e presenze in calo rispetto al 2008-09). È l’epoca in cui Guardiola consolida un’idea di gioco estremamente identitaria, fondata su Xavi, Iniesta e, appunto, Busquets come mediano-posizionale. In quel contesto, un centrocampista fisico ma anche creativo come Touré finisce per adattarsi a più ruoli – fino alla retroguardia – senza più essere la prima scelta in mezzo. I dati del club raccontano 118 gare ufficiali in tre anni con il Barça; la stagione finale è quella dell’erosione.
Il passaggio chiave delle nuove rivelazioni di Touré riguarda la presunta telefonata post-Mondiale 2010. L’ivoriano sostiene che Guardiola gli abbia chiesto di rientrare o restare, nonostante un anno ai margini. È un dettaglio che sorprende, alla luce degli eventi successivi: a inizio luglio 2010 il Manchester City ufficializza l’acquisto del centrocampista ivoriano per una cifra nell’ordine dei 24-27,5 milioni di sterline, investimento che, per l’epoca, lo pone tra i colpi più pesanti del mercato. Diverse ricostruzioni giornalistiche attestano un trasferimento attorno alle £24-25 milioni, mentre altre parlano di circa £27,5 milioni: oscillazione fisiologica tra fonti, ma grandezza dell’operazione inequivocabile. Secondo Goal e altre testate, Touré firmò anche un contratto tra i più ricchi della Premier League di allora.
È qui che entra in scena un elemento umano potente, sottolineato dall’ivoriano: la pressione familiare. La moglie – racconta Yaya – lo avrebbe messo in guardia: “Ti ha trattato male, ora ti rivuole? Andiamo a Manchester.” La scelta di vita e di carriera converge: Roberto Mancini lo vuole per costruire un City nuovo, competitivo e ambizioso. Il resto è storia.
All’Etihad, fra 2010 e 2018, Touré diventa leggenda dei Citizens: 316 presenze totali, 79 gol, tre titoli di Premier League e una batteria di coppe nazionali. Soprattutto, presta la firma in calce a due date che i tifosi di Manchester non dimenticano: 14 maggio 2011, semifinale di FA Cup vinta con un suo gol contro lo United; e la finale a Wembley contro lo Stoke City, decisa ancora da lui. Nel 2013-14 tocca l’apice realizzativo con 24 reti complessive, di cui 20 in campionato, dominando come interno di centrocampo con licenza d’inserimento e tiro. Una metamorfosi tattica che esalta le sue doti e certifica quanto fosse tutt’altro che “superfluo” ad alti livelli.
Il rapporto si riaccende (male) nell’estate 2016, quando Guardiola prende il timone del Manchester City. La selezione tecnica è spietata: inizialmente Touré resta fuori dalla lista Champions, l’agente Dimitri Seluk attacca pubblicamente, e Pep risponde imponendo un principio: il giocatore non tornerà a disposizione finché non arriveranno scuse ufficiali. Le scuse di Touré arrivano a novembre 2016 (“a nome mio e di chi mi rappresenta”), ma la tregua non cancella la distanza: l’ivoriano rientra, gioca, incide a tratti, ma non ritroverà mai la centralità dell’era Mancini-Pellegrini.
La frattura diventa pubblica nel 2018, quando Touré, in una famosa intervista a France Football ripresa da media internazionali, si chiede se Guardiola abbia “problemi con i giocatori africani”. Pep replica definendo quelle accuse “una bugia” e ricordando di non aver mai ricevuto tali contestazioni “faccia a faccia”. Anni dopo, nel 2021, Yaya dice di aver scritto al tecnico per chiedere scusa per quelle parole, senza ricevere risposta. È il segno che, al di là delle tattiche e dei sistemi, il rapporto personale non è stato ricomposto.
L’accusa di Touré – “mi ha fatto giocare pochissimo per un anno” – si riferisce alla sua ultima stagione al Barcellona, 2009-10. L’ivoriano totalizza 37 presenze in tutte le competizioni (di cui 23 in Liga) e, secondo più fonti, appena una manciata di gare da titolare in campionato; il minutaggio è nettamente inferiore al 2008-09. Tenendo insieme numeri e narrazione, è verosimile dire che Touré non fu del tutto escluso, ma divenne un elemento di rotazione secondaria, spesso utilizzato fuori ruolo e quasi mai al centro del progetto. Per un giocatore nel pieno della carriera, reduce da uno Scudetto e dalla Champions, quel ridimensionamento pesa come una sentenza.
La rivelazione più sorprendente resta la telefonata post-2010. Se la cronologia dell’operazione City è chiara – accordo e ufficialità fra fine giugno e inizio luglio 2010 – l’idea che Guardiola avesse provato a trattenere o a riportare Touré subito dopo il torneo sudafricano introduce un corto circuito psicologico: perché chiedere un dietrofront dopo un anno di progressivo disimpegno? È possibile che il rendimento visto in Sudafrica avesse suggerito a Pep di riconsiderare? O che la chiamata fosse una forma di chiarimento umano più che una proposta tecnica? Qui finisce il territorio dei fatti e inizia quello delle percezioni. La notizia della chiamata è riportata in più testate a partire dalle parole dello stesso Touré; Guardiola, su questo punto specifico, non ha (ancora) fornito una versione pubblica. Prudenza, dunque: la ricostruzione resta a senso unico, da una sola voce.
Per capire la frizione serve tornare al campo. Il Barcellona di Guardiola si regge su concetti chiave: il “juego de posición”, l’occupazione razionale degli spazi, il palleggio con triangoli e linee di passaggio sempre vive. Nel cuore c’è il “6” che imposta, si smarca tra i centrali e detta i tempi: ruolo che Busquets incarna in modo quasi archetipico. Touré, più verticale, più portato all’avanzamento palla al piede e alla rottura degli equilibri, può adattarsi ma non è il profilo puro da metronomo posizionale. Quando Pep sceglie definitivamente Busquets, il campo per Yaya si restringe: o da interno meno associativo rispetto a Xavi e Iniesta, o da centrale difensivo di emergenza. In entrambi i casi, il suo talento resta tangibile, ma non è “lì” che il tecnico immagina l’epicentro del gioco. Questa è la scelta tecnica fondativa che genera, a catena, lo strappo.
L’ultima stagione di Touré al City con Guardiola al comando (2017-18) è avara di minuti: in Premier colleziona appena 10 presenze. Nel giugno 2018 esplode l’intervista a France Football e la cicatrice diventa pubblica. Guardiola respinge le accuse; una parte dello spogliatoio (ad esempio Kevin De Bruyne all’epoca) si schiera al fianco dell’allenatore; Touré in seguito cerca una forma di riconciliazione, scrivendo – ha raccontato lui stesso – una lettera di scuse. Silenzio dall’altra parte. È una storia in cui la distanza non è soltanto professionale: l’eco tocca temi sensibili come l’identità, il rispetto, la percezione di equità nelle scelte.
Nel tempo, la narrazione è stata inquinata anche da leggende tossiche. Nel 2018 l’agente Dimitri Seluk evoca una presunta “maledizione africana” su Guardiola; nel 2023 lo stesso Seluk dichiara che quella maledizione sarebbe stata tolta. Yaya Touré interviene con forza per dissociarsi: “Non associate il mio nome a queste sciocchezze e a stereotipi pigri e dannosi sull’Africa.” Un punto fermo importante, perché separa la vicenda personale dalle narrazioni folkloristiche.
Alla luce delle nuove parole, cosa possiamo dire con sicurezza, e cosa no?
Questa vicenda continua a interessare non per il colore delle frasi, ma per il nodo che tocca: la linea sottile fra la freddezza del metodo e il calore delle persone. Guardiola è l’allenatore che più di tutti ha dimostrato come un’idea di calcio possa cambiare il destino dei club; la sua gestione, però, non ha mai preteso di essere tenera. Touré, dal canto suo, rappresenta il prototipo del centrocampista totale dell’ultimo quindicennio: forza, strappo, qualità, leadership. Il loro rapporto – fusione riuscita nel primo anno di Pep al Barça, poi divergenza – è lo specchio di due visioni del talento: quello “incanalato” dentro un sistema perfetto e quello “liberato” per spaccare le partite.
Se c’è una lezione utile, sta nel mettere insieme le due verità. Da un lato, le scelte tecniche possono spiegare il campo: Busquets al “6” era coerente con l’idea di Guardiola; dall’altro, la gestione delle persone determina quanto una decisione sia accettabile per chi la subisce. Non sapremo probabilmente mai se quella telefonata del 2010 fosse un ripensamento sincero o un gesto tardivo. Sappiamo però che, per Yaya, il segno lasciato da quell’anno da comprimario non si è mai cancellato.
Resta la carriera: 118 gare e 6 gol con il Barcellona, due Liga, una Champions; poi 316 presenze, 79 reti e tre Premier League col Manchester City. E resta, soprattutto, l’impronta delle notti in cui Touré ha “spostato” il calcio inglese con la sua fisicità elegante, la conduzione a falcate e il destro che pescava l’angolo. Numeri che non cancellano le ferite, ma impediscono che si riduca tutto a un rancore. Perché un giocatore che segna la semifinale e la finale di FA Cup 2011, e mette 20 gol in campionato nel 2013-14, non è mai stato “polvere”. Nemmeno quando si è sentito tale.
Nell’ultimo passaggio della recente intervista, Touré dice di voler “rompere il mito” attorno a Guardiola. È un proposito che suona più come un manifesto emotivo che come un progetto possibile: i miti non si rompono con una frase, e la grandezza di Pep – piaccia o meno – è scolpita dai risultati. Ma i miti, per essere davvero tali, devono saper contenere anche le crepe. Questa storia – collettiva, tecnica, umana – è una di quelle crepe. E vale la pena tenerla a mente quando, la prossima volta, vedremo Guardiola alzare un trofeo o Touré prendere la parola: dietro gli schemi perfetti e le notti perfette, ci sono sempre persone. E le persone, a volte, restano lontane per sempre.