Nel silenzio di Wembley, nella notte del 29 maggio 1968, un ragazzo con la maglia numero 7 scartò il portiere del Benfica, appoggiò il pallone in rete e sembrò mettere il mondo ai suoi piedi. Era George Best. Aveva 22 anni, avrebbe vinto il Pallone d’Oro 1968 e trascinato il Manchester United alla sua prima Coppa dei Campioni: un trionfo incastonato a dieci anni dalla tragedia di Monaco. Poi, quasi senza che il calcio se ne accorgesse, iniziò la discesa: feste, alcol, e quella battuta feroce che oggi suona come un SOS (“nel 1969 provai a smettere con alcol e donne: furono i peggiori 20 minuti della mia vita”). Il talento non basta quando le dipendenze bussano alla porta. E la prevenzione non può aspettare il primo scandalo, né il primo ricovero.
Perché partire da Best, oggi
Perché la sua parabola contiene, in miniatura, il manuale dei rischi moderni: esposizione mediatica precoce, isolamento, facilità di accesso a alcol e gioco d’azzardo, assenza di argini culturali dentro i club. Le cronache recenti lo confermano: dal caso Ivan Toney (squalifica di 8 mesi per 232 violazioni delle regole sulle scommesse) a quello di Sandro Tonali (stop di 10 mesi e percorso terapeutico obbligatorio), fino alla confessione pubblica di Dele Alli sul ricovero in clinica per dipendenza da farmaci per dormire e traumi infantili. Sono scosse telluriche che rivelano faglie rimaste a lungo ignorate.
Un dato che non consente alibi
Secondo ricerche di FIFPRO, fino al 38% dei calciatori professionisti riferisce sintomi di ansia/depressione nel corso della carriera; l’uso problematico di alcol viene stimato attorno al 9%, con picchi legati a infortuni e transizioni di carriera. Tradotto: in uno spogliatoio da 25 giocatori, anche nove potrebbero convivere con disagi clinicamente rilevanti. Non sono numeri “di colore”: sono istruzioni per intervenire presto, bene, insieme.
Il punto di svolta: dalla reazione allo scandalo alla prevenzione strutturale
Lezioni dai casi reali
- Il procedimento contro Ivan Toney ha mostrato che la diagnosi di “dipendenza da gioco” può incidere sulla sanzione e, soprattutto, orientare il percorso di cura. Il messaggio per i club: servono canali confidenziali per intercettare il problema prima che sia la federazione a bussare.
- L’accordo che ha portato alla squalifica di Sandro Tonali ha integrato punizione e trattamento (otto mesi di interventi terapeutici e testimonianze educative), riconoscendo che il rischio clinico è parte del quadro.
- La testimonianza di Dele Alli ha squarciato il velo su un tema spesso invisibile: l’uso di ipnotici per controllare l’insonnia e “spegnere” il dolore emotivo. È un campanello per i medici sociali: la farmacovigilanza non è burocrazia, è prevenzione primaria.
Il contesto regolatorio si muove (ma non basta)
- La Premier League ha annunciato l’addio volontario agli sponsor di scommesse sul fronte maglia a partire dal 2026-27. Un passaggio simbolico importante, che però lascia aperti sleeve e led e dunque non annulla l’esposizione. Per i club, è il momento di andare oltre il minimo sindacale e legare ogni partnership a programmi educativi misurabili.
- Le autorità e le leghe hanno iniziato a definire codici di condotta per limitare i rischi dei rapporti con operatori dell’azzardo, segno che il vento sta cambiando anche a livello di governance.
Guida pratica per club e atleti: costruire un sistema che regge
1) Mettere la salute mentale a livello della salute fisica
- Adottare i riferimenti dell’International Olympic Committee: la Consensus Statement (2019) mette nero su bianco che la salute mentale e la performance sono inseparabili. È la base per protocolli clinici condivisi, al pari di quelli per muscoli e legamenti.
- Implementare stabilmente gli strumenti IOC: SMHAT‑1 (valutazione clinica multilivello per professionisti sanitari) e SMHRT‑1 (riconoscimento dei segnali per atleti e staff). Inserirli nei check pre‑stagionali, a metà stagione e a fine stagione, e dopo eventi critici (infortuni, panchine prolungate, trasferimenti, episodi di abuso online).
Cosa significa in pratica:
- Screening confidenziali trimestrali con psicologo/psichiatra dello staff.
- Integrazione dei risultati con i dati di carico fisico per individuare “finestra di rischio” su base bio-psico-sociale.
- Piani individuali: dagli interventi brevi di psicoterapia all’eventuale avvio di trattamenti specialistici, sempre collegati al ritorno in campo.
2) Presidi permanenti, non consulenze “a progetto”
Il modello di NBA dal 2019 impone a ogni franchigia almeno un professionista di salute mentale a tempo pieno e uno psichiatra di riferimento, oltre a piani scritti per le emergenze. Nel calcio, replicare questo standard significa prevedere equivalenti strutturali, con chiari canali di accesso per prima squadra, giovanili e staff.
Checklist minima per un club professionistico:
- 1 psicologo clinico con esperienza sportiva nell’organico, presente in sede;
- 1 psichiatra consulente attivabile entro 48 ore;
- 1 referente welfare per le giovanili, formato su segnali di rischio e procedure di invio;
- Numero interno h24 e protocollo di crisi (ideazione suicidaria, abuso di sostanze, violenza domestica).
3) Alcohol & Gambling Policy: regole chiare, formazione continua
- Politica sull’alcol: zero tolleranza in attività ufficiali; formazione obbligatoria annuale sui rischi (interazione con farmaci, sonno, recupero). Integrare i dati FIFPRO per motivare il gruppo e abbattere lo stigma.
- Politica su scommesse: oltre al regolamento FA (esempio), servono sessioni pratiche su come riconoscere i trigger, gestire l’accesso digitale, chiedere aiuto in anonimato. Gli ultimi casi hanno mostrato che l’azzardo non è “svago” ma vulnerabilità clinica, spesso compatibile con alte prestazioni fino al collasso.
Moduli formativi raccomandati (90 minuti, trimestrali):
- Meccanismi di ricompensa e “intermittenza” nell’azzardo;
- Segnali precoci di tolleranza e astinenza in sostanze legali (alcol, ipnotici);
- Gestione del denaro e monitoraggio spese;
- Ruolo dei compagni “sentinella” e del capitano nello spogliatoio.
4) Traumi, dolore e farmaci: la zona grigia da illuminare
La dipendenza non nasce nel vuoto. La letteratura e i casi recenti mostrano nessi tra infortuni, dolore cronico, insonnia, uso di farmaci e progressiva perdita di controllo. La testimonianza di Dele Alli è un promemoria su cui costruire policy di farmacovigilanza: audit semestrali delle prescrizioni, educazione al sonno, limiti chiari alla durata delle terapie ipnoinducenti, alternative non farmacologiche.
5) Dalla cura alla rete: partnership con enti specializzati
- In Regno Unito, la PFA offre una linea di counselling 24/7 e accesso a percorsi di residenziale tramite la charity Sporting Chance, fondata da Tony Adams nel 2000 dopo il suo percorso di recupero. Per i club, è cruciale formalizzare protocolli di invio, co-finanziare i percorsi e garantire che ogni tesserato conosca numeri e procedure.
Cosa fissare a calendario:
- Presentazione iniziale dei servizi PFA/union;
- Simulazione di un invio “in chiaro” e di un invio anonimo;
- Follow-up a 30/90 giorni post-dimissioni da un centro residenziale.
6) Educazione alla fama e all’ambiente digitale
La fama accelera, amplifica, deforma. Programmi efficaci includono:
- Alfabetizzazione mediatica: gestione di social, prevenzione della dipendenza da notifiche, “digi-detox” settimanali;
- Budgeting e consulenza finanziaria per ridurre il ricorso all’azzardo come “compensazione”;
- Tutoraggio intergenerazionale: un ex pro formato accompagna i primi 12 mesi di ogni giovane in prima squadra. Le evidenze FIFPRO collegano transizioni e sintomi: anticiparle riduce i danni.
Dal caso singolo alla cultura del gruppo
L’errore più comune
Aspettare il “caso”, poi chiamare un esperto. È reattivo, costoso, spesso tardivo. Un club moderno deve trattare la salute mentale come la prevenzione muscolare: programmazione, monitoraggio, ritorno al ruolo con step chiari, privacy protetta.
KPI per i dirigenti (misurare per migliorare)
- Percentuale di atleti che completano gli screening SMHAT‑1 alle tre finestre stagionali: target >90%.
- Tempo medio di attivazione del supporto specialistico: target <72 ore dalla segnalazione.
- Numero di ore di formazione pro capite l’anno su alcol/azzardo: target >6.
- Tasso di ricaduta a 12 mesi dopo intervento residenziale: obiettivo di riduzione anno su anno, in partnership con Sporting Chance/PFA.
“Non succede a noi”: il bias che va smontato
Il calcio ha un’alta tolleranza alla “follia del genio”. La storia di George Best lo dimostra meglio di chiunque: il carisma copre le crepe, i gol ritardano la domanda giusta, il gruppo si abitua a normalizzare l’anomalia. Eppure il finale è scritto da tempo. Pure le istituzioni lo riconoscono: l’IOC richiama da anni a un approccio bio-psico-sociale; le leghe US come la NBA hanno internalizzato figure cliniche; i sindacati come FIFPRO mappano i segnali e offrono strumenti. Collegare questi tre pilastri — scienza, governance, rappresentanza — è il compito che il calcio europeo deve completare nei prossimi 12-24 mesi.
Un programma tipo in 10 mosse (per una stagione “pilota”)
- Policy unificate su alcol e azzardo approvate dal CdA e comunicate alla rosa entro il ritiro.
- Nomina di uno psicologo interno e di uno psichiatra consulente; pubblicazione dei contatti nelle aree riservate del centro sportivo.
- Screening SMHAT‑1 all’ingresso in ritiro, a metà stagione, a fine stagione; sessioni SMHRT‑1 per staff tecnico e capitani.
- Formazione trimestrale su azzardo, alcol, farmaci (con moduli da 90 minuti per gruppi ridotti).
- Protocollo di crisi scritto e testato (simulazione di un caso reale, tempo di risposta, flussi privacy).
- Partnership con PFA/Sporting Chance o equivalenti nazionali: canali rapidi per ricovero residenziale quando necessario.
- Tutoraggio per giocatori U23: un ex professionista formato accompagna il primo anno in A o in B.
- Dashboard mensile al DG con KPI su accessi, tempi di presa in carico, completamento percorsi e feedback anonimi.
- Coinvolgimento famiglie/partner con seminari sul riconoscimento dei segnali rossi e sui confini digitali.
- Report pubblico di sostenibilità con dati aggregati (anonimi) su prevenzione e supporto, in linea con il nuovo corso etico sulle sponsorizzazioni.
Epilogo: smettere di confondere l’eccezione con la regola
Quando George Best segnò a Wembley nel 1968, nessuno immaginava che in quel dribbling ci fosse già il germe della caduta. Eppure la storia successiva — i ricoveri, il trapianto di fegato nel 2002, la morte nel 2005 — ci ricorda che lo sport di élite non è un’astronave fuori dalle leggi umane: è un acceleratore. Accelera le gioie, ma anche le fragilità. La prevenzione non toglie magia al gioco: la protegge. Se club e leghe adotteranno standard clinici veri, policy trasparenti e reti di cura alleate con i sindacati giocatori, le prossime notti di Wembley — o di qualsiasi finale — saranno più leggere. Perché il talento merita di durare, e la salute di chi lo porta in campo è il primo trofeo da difendere.