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11 Dicembre 2025
Il Lumen Field di Seattle
Immaginate la scena.
È il 26 giugno 2026, fuori dal Lumen Field di Seattle. Arrivano tifosi dall’Iran, dall’Egitto, dagli Stati Uniti, da mezzo mondo. Sciarpe, tamburi, cori. E, insieme alle bandiere nazionali, le bandiere arcobaleno del Pride.
Per Seattle è un messaggio chiaro: il Mondiale arriva nel weekend del Pride, e la città vuole dire a voce alta «qui nessuno deve sentirsi di troppo». Non dentro lo stadio – dove comanda la FIFA – ma tutto intorno, nelle strade: concerti, installazioni, eventi che parlano di rispetto e di diritti per la comunità LGBTQ+ e per chiunque voglia sentirsi accolto.
Per tanti sarà una festa. Per altri, invece, è già uno scandalo. Ed è qui che il calcio smette di essere solo schemi e tattiche e diventa anche specchio del mondo.
Le federazioni di Iran ed Egitto non l’hanno presa bene.
Hanno scritto alla FIFA definendo la scelta di Seattle “irrazionale” e “incompatibile” con i loro valori religiosi e sociali. Temono che la partita venga usata per promuovere un’idea di libertà che, nei loro Paesi, è ancora un tabù, a volte addirittura un reato.
Da una parte c’è la paura di perdere il controllo sul racconto: che cosa vedranno i tifosi in tv? Che messaggi arriveranno a casa?
Dall’altra c’è una città che non vuole spegnere il proprio Pride solo perché ospita una partita del Mondiale. Seattle dice, in sostanza: «Non stiamo cambiando le regole del torneo, stiamo facendo quello che facciamo ogni anno: dire a tutti che qui nessuno viene buttato fuori dal gioco».
In mezzo, milioni di persone che vivono in Paesi dove una bandiera arcobaleno può costare molto più di un fischio o di un insulto.
In mezzo a tutto questo c’è la FIFA, con le sue contraddizioni.
Nei documenti ufficiali è chiarissima: niente discriminazioni, nemmeno per orientamento sessuale. Poi però, quando si entra negli stadi, la linea si fa meno netta: lo abbiamo visto a Qatar 2022, tra bracciali OneLove vietati, bandiere fermate ai controlli e continui cambi di rotta.
Seattle è un test diverso: il Pride non entra in campo, ma circonda la partita.
Il Mondiale cerca di restare “neutro”, ma la città rivendica il diritto di mostrare i propri valori. La domanda vera, allora, è un’altra: possiamo ancora parlare di neutralità quando in gioco c’è la dignità di chi chiede solo di sentirsi al sicuro sugli spalti?
A volte, dietro la parola “neutralità”, si nasconde la scelta più comoda: non prendere posizione. Ma “no discrimination” non è uno slogan da brochure, è una responsabilità. E richiede, a un certo punto, anche un po’ di coraggio.
Si potrebbe archiviare tutto come “roba da politica internazionale”.
Ma sarebbe troppo facile. Quello che succede a Seattle racconta anche il calcio che viviamo noi, nei nostri campi di provincia e nei nostri spogliatoi.
Perché dietro quella bandiera arcobaleno fuori dal Lumen Field ci sono:
ragazze e ragazzi che amano il calcio ma hanno paura di dirlo fino in fondo,
genitori che non sanno se il figlio, un giorno, potrà sentirsi libero allo stadio come in casa,
allenatori che provano a tenere lo spogliatoio come uno spazio sicuro, non solo come un posto dove si disegna il 4-3-3.
Il 26 giugno 2026 a Seattle si giocheranno due partite:
una tra Iran ed Egitto, dentro il rettangolo verde;
e una, più silenziosa ma decisiva, tra chi vuole che il calcio resti un club per pochi “accettabili” e chi pensa che lo stadio dovrebbe essere il posto più semplice del mondo in cui sentirsi sé stessi.
Per chi ama questo sport, la speranza è che quella notte vincano entrambe le partite:
che in campo si veda bellezza, e fuori nessuno debba nascondersi per poterla vivere.