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13 Dicembre 2025
Una parete imbrattata, vetri in frantumi, gomme bucate.
Estate 2004, Croxteth: mentre Wayne Rooney diventa il teenager più costoso del calcio inglese, la casa dei suoi genitori diventa il bersaglio.
Non sono solo fischi allo stadio:
sono colpi di paintball alle finestre, scritte sul muro, minacce.
Tutto per una scelta: lasciare l’Everton e firmare con il Manchester United.
Oggi Rooney lo dice chiaramente: per reggere una cosa così serve una testa fortissima e qualcuno che ti protegga davvero.
A 18 anni Rooney passa dall’Everton allo United per oltre 20 milioni di sterline più bonus.
Per l’epoca è una cifra fuori scala: il talento più luminoso d’Inghilterra pagato come una superstar affermata.
Risultato:
diventa subito il simbolo della nuova era United,
mezza Premier lo fischia a prescindere,
a Liverpool una parte della tifoseria lo vive come un traditore.
In campo segna, trascina, regge lo scontro fisico con tutti.
Fuori, però, comincia un’altra partita: quella con la pressione, i tabloid, la città che non ti perdona.
Dietro ai titoli “Rooney traditore” c’è una famiglia in trincea.
I genitori a Croxteth vedono:
gomme tagliate,
vernice lanciata contro la facciata,
vetri delle auto rotti,
minacce di morte scritte e urlate.
Coleen, anni dopo, parlerà di una famiglia “terrorizzata”.
Sir Alex Ferguson arriva a suggerire una cosa brutale ma logica: andate via da Liverpool, perché il livello è troppo alto.
Qui il tifo ha già passato la linea rossa: non è più “passione da stadio”, è pressione psicologica su una famiglia di persone normali.
Nel 2010 la storia si ripete, con un’altra maglia in mezzo.
Cominciano le voci: Rooney potrebbe passare dal Manchester United al City.
Una sera, davanti alla sua casa a Prestbury, si presentano 30–40 tifosi incappucciati.
Striscione: «If you join City, you’re dead».
Arriva la polizia, arriva la sicurezza del club, nessuno viene arrestato.
Ma prova a immaginare la scena:
tu hai 24 anni,
in casa ci sono tua moglie e tuo figlio,
fuori dal cancello ci sono decine di persone col volto coperto.
Il calcio ci ride sopra per un giorno.
Ma a chi vive lì dentro resta addosso per anni.
Per fuori, Rooney è il simbolo della mascolinità “dura”: tackle, gol, derby.
Per dentro, è un ragazzo che a un certo punto non regge più.
Lo ha raccontato lui:
si chiudeva in casa per giorni nei momenti liberi,
usava l’alcol per anestetizzare la pressione,
non si sentiva in grado di dire «ho bisogno d’aiuto».
Negli spogliatoi di allora nessuno parlava di ansia, attacchi di panico, salute mentale.
Se sei forte, sei forte. Se vacilli, taci.
Oggi Rooney ribalta il tavolo:
dice che senza una rete vera – famiglia, staff, psicologi – rischi di schiantarti, anche se sei il numero 10 dell’Inghilterra.
Rooney è cresciuto sognando l’Everton, è esploso con l’Everton, è tornato all’Everton nel 2017 per chiudere il cerchio.
Ma i trofei, i record, la storia vera li ha firmati allo United:
5 Premier League,
1 Champions League,
miglior marcatore di sempre del club.
Ogni volta che torna a Goodison, però, c’è una parte della tifoseria che non lo ha mai perdonato.
Per qualcuno resta il ragazzo che “se n’è andato per soldi”.
La verità sta nel mezzo: il calcio moderno è business, ma questo non giustifica l’assedio alla vita privata. Criticare sì, terrorizzare no.
Il racconto di Rooney oggi vale più di qualsiasi rovesciata nel derby di Manchester.
Perché dice a tutti – ragazzi delle giovanili, genitori, club – una cosa semplice:
il talento non basta,
i soldi non bastano,
senza una rete di adulti che ti proteggono rischi di perderti.
Il 31 agosto 2004 resterà sempre la data del grande trasferimento.
Ma l’immagine che dovremmo ricordare è un’altra:
un muro imbrattato, un cancello presidiato,
un diciottenne che diventa simbolo prima di essere uomo,
e un calcio che, ancora oggi, deve imparare a non superare quella porta.
Il resto – gol, titoli, highlights – lo trovate ovunque.
Questa è la parte che di solito non entra nel tabellino, ma che racconta davvero quanto costa essere Wayne Rooney.