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Dalla panchina di fumo al miracolo Cagliari: uno scudetto, zero urla e quella lezione di libertà data al calcio dei potenti

«Il Filosofo in panchina»: tra silenzi, sigarette e l’arte di vincere trattando i calciatori come uomini, non come soldati

Dalla panchina di fumo al miracolo dell’Isola: uno scudetto, zero urla e quella lezione di libertà data al calcio dei potenti

Manlio Scopigno (a destra) con Gigi Riva

AMSICORA, DOVE IL SILENZIO FACEVA RUMORE

Sulla panchina dello stadio Amsicora, sotto il sole a picco o nel vento di maestrale, l’immagine era sempre la stessa: un uomo in impermeabile chiaro, immobile, quasi distaccato. Niente tute, niente urla sguaiate, niente corse lungo la linea laterale.

Tra le dita, immancabile, una sigaretta accesa. Quell’uomo era Manlio Scopigno.

Mentre gli altri allenatori degli anni ‘60 e ‘70 predicavano disciplina militare e ritiri punitivi, lui osservava il calcio con l’aria sorniona di chi ha capito che la vita è troppo breve per prenderla troppo sul serio. Eppure, dietro quella flemma apparente, c’era l’architetto dell’impresa più impossibile della storia del calcio italiano: portare lo Scudetto in Sardegna, strappandolo alle potenze del Nord.

«Il calcio è un castello le cui fondamenta sono le bugie», diceva. E forse proprio per questo lui, in mezzo a tante bugie, aveva scelto di essere spietatamente vero.

IL MIRACOLO CAGLIARI: QUANDO L’ISOLA DIVENTÒ REGINA

Per capire la grandezza di Scopigno bisogna tornare alla stagione 1969-1970.

Il calcio italiano è dominato dal triangolo industriale: Juventus, Inter, Milan. Il Sud e le Isole sono periferia, serbatoi di manodopera, non palcoscenici di gloria. Scopigno prende un gruppo di giocatori formidabili – Gigi Riva su tutti, ma anche Cera, Domenghini, Albertosi – e fa qualcosa che va oltre la tattica: toglie loro la pressione. Mentre a Torino e Milano si vive di tabelle e ossessioni, a Cagliari Scopigno costruisce una famiglia basata sulla responsabilità individuale. Regala alla Sardegna uno Scudetto che vale quanto dieci campionati vinti altrove. È il trionfo della provincia che si fa Stato. Non è solo calcio: è riscatto sociale, è orgoglio di un popolo intero che vede in quegli undici ragazzi e nel loro "strano" allenatore la rivincita contro anni di emarginazione.

Come il Parma di Scala anni dopo, quel Cagliari non era un agglomerato di stelle, ma un blocco di granito dove il "noi" contava più dell'io.

L'ANTI-SERGENTE: IL RIFIUTO DELLE REGOLE INUTILI

C’è un aspetto, nella carriera di Manlio Scopigno, che lo rende il precursore di una gestione umana che oggi definiremmo "rivoluzionaria". In un’epoca di sergenti di ferro, lui sceglie di trattare i calciatori come adulti.

Abolisce il ritiro pre-partita. Un'eresia per l'epoca.

«Se li chiudo in albergo, giocano a carte e fumano di nascosto fino alle tre di notte. Se li lascio a casa, magari fanno l'amore con la moglie e alle dieci dormono. Meglio la seconda», spiegava con disarmante lucidità.

L'aneddoto più famoso racconta perfettamente il suo metodo.
Una sera entra in una stanza d'albergo dove non dovrebbe esserci nessuno. Trova i suoi giocatori, Riva incluso, avvolti in una nebbia di fumo, intenti a giocare a poker. Il terrore si dipinge sui volti dei calciatori, pronti alla sfuriata e alla multa. 
Scopigno entra, si guarda intorno, tira fuori il pacchetto e chiede: «Dà fastidio se fumo anch'io?».

Nessuna scenata. Si siede, fuma, osserva. Con quella frase aveva ottenuto più rispetto e lealtà di mille allenamenti punitivi. Era la sua grammatica: fiducia in cambio di responsabilità. Se tradivi quella fiducia, eri fuori. Ma se la rispettavi, lui ti avrebbe difeso contro tutto e tutti.

IL FILOSOFO: INTELLIGENZA BATTE MUSCOLI

Lo chiamavano "Il Filosofo" non per vezzo, ma per attitudine. Laureato mancato in storia e filosofia, amava leggere, l'arte, la buona tavola e il whisky, preferendo una conversazione intelligente a una discussione tattica sui blocchi difensivi. Il suo Cagliari giocava un calcio moderno, ma tutto partiva dalla testa.

«Io in panchina non urlo. Se urlo non mi sentono, e se mi sentono non capiscono. Tanto vale stare zitti», diceva.

Un approccio che oggi, nel calcio delle urla a bordo campo e delle cuffiette tattiche, sembra fantascienza. Eppure, funzionava. I giocatori sapevano che il loro mister non era lì per fare il protagonista, ma per metterli nelle condizioni di esprimersi.

DALLA GLORIA ALL’OBLIO: LA COERENZA DEL SILENZIO

Dopo l'apice di Cagliari, la carriera di Scopigno non cercò i riflettori a tutti i costi. Allenò ancora (Roma, Vicenza, Bologna), ma il calcio stava cambiando, diventando sempre più isterico, sempre meno adatto alla sua ironia sottile e ai suoi ritmi umani. Si ritirò presto, in silenzio, fedele al suo personaggio. Morì nel 1993, senza grandi celebrazioni istituzionali, lasciando un vuoto che solo anni dopo è stato davvero compreso.

Oggi, in un calcio dilettantistico e professionistico ossessionato dai dati, dai GPS e dalla performance fisica esasperata, la lezione di Scopigno è potente quanto quella vigna curata da Nevio Scala.

Ci ricorda che i calciatori sono prima di tutto persone.
Che un gruppo unito vale più di uno schema perfetto.
Che si può vincere restando umani, concedendosi una battuta, un sorriso, persino un vizio, purché alla base ci sia il rispetto.

Manlio Scopigno non coltivava la terra, coltivava l’intelligenza dei suoi uomini.
E il raccolto, nell'anno di grazia 1970, fu il vino più dolce che la Sardegna abbia mai bevuto.

Tra una sigaretta e un silenzio, aveva spiegato all'Italia che per arrivare in alto non serve urlare: basta saper guardare gli uomini negli occhi.

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