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Dalla nebbia della Bovisa al tricolore strappato a Maradona e Platini: l'allenatore che ha trasformato la normalità in leggenda

Niente tablet, nessuna scenata e libertà totale per i suoi «matti» Elkjaer e Garella: così, 40 anni fa, guidava il Verona a una cavalcata che ha il profumo dell'impresa

Dalla nebbia della Bovisa al tricolore strappato a Maradona e Platini: la lezione di un uomo che ha conquistato l’Italia trasformando la normalità in leggenda

Osvaldo Bagnoli portato in trionfo dai tifosi per la conquista dello scudetto

L’UOMO CHE VENIVA DALLA NEBBIA

C’è una differenza sostanziale tra l’essere semplici e l’essere banali.
Osvaldo Bagnoli, nato nel 1935 alla Bovisa – quartiere milanese di operai, ciminiere e nebbia vera – ha passato la vita a spiegare questa differenza. Senza parlare troppo, ovviamente. 
Oggi gli allenatori sono guru, influencer, manager.
Bagnoli sembrava un capomastro. Uno di quelli che arrivano in cantiere presto, guardano il lavoro da fare, si rimboccano le maniche della camicia e con due parole mettono in riga la squadra.

Nel 1985, contro la Juventus di Platini e il Napoli di Maradona, questo "capomastro" ha costruito l’impresa più impossibile del calcio italiano moderno: portare lo Scudetto a VeronaNon era il Leicester, che è stata una favola isolata.
Quello di Bagnoli è stato un capolavoro di architettura calcistica costruito anno dopo anno, dalla Serie B alla vetta d'Italia.

LO SPOGLIATOIO DEI "PIRATI"

Per capire la grandezza di Bagnoli bisogna guardare chi allenava. Non aveva soldatini. Aveva gente che le grandi squadre avevano scartato o non capivano.

  • Garella: un portiere che parava con i piedi, con la pancia, con tutto tranne che con lo stile. Tutti ridevano, Bagnoli gli diede fiducia.

  • Elkjaer: il danese pazzo, fumatore accanito, che viveva la notte. Bagnoli non gli mise il guinzaglio, gli disse solo: "La domenica fammi vincere". E lui vinse, segnando persino senza una scarpa contro la Juve.

  • Briegel: un decatleta prestato al calcio, un carro armato tedesco che nessuno sapeva dove mettere. Bagnoli gli inventò un ruolo a tutto campo.

Il segreto? Osvaldo non usava schemi rigidi. Se hai un cavallo pazzo, non lo chiudi in un box. Lo lasci correre. In un calcio che iniziava a riempirsi di tatticismi esasperati, lui ebbe il coraggio di adattare il gioco agli uomini, e non viceversa. 

«Il calcio è semplice», ripeteva.

LA FILOSOFIA DEL SILENZIO (E DI SCHOPENHAUER)

Gianni Brera, il più grande giornalista sportivo dell'epoca, lo ribattezzò "Schopenhauer".
Come il filosofo tedesco, Bagnoli sembrava sempre un po' malinconico, pessimista, distaccato. 
In realtà, era saggezza pratica.
Bagnoli non faceva proclami. Nelle conferenze stampa rispondeva a monosillabi. Detestava la tv, le polemiche, il circo mediatico.

Quando il Verona vinse lo Scudetto aritmetico a Bergamo, mentre la città impazziva e i giocatori venivano portati in trionfo, lui si defilò. Le telecamere lo cercavano. Lui era in un angolo, quasi imbarazzato.
«Ho fatto solo il mio lavoro», sembrava dire la sua espressione. 

L'ADDIO E LA COERENZA FINALE

C’è un ultimo atto che rende Bagnoli un gigante.
Dopo Verona, va al Genoa (e fa un altro miracolo: quarto posto e semifinale UEFA ad Anfield) e poi all’Inter.
All’Inter fa bene, ma il calcio sta cambiando. Arrivano i miliardi, le pressioni degli sponsor, le interviste obbligatorie. 
Bagnoli capisce che quel mondo non è più il suo. Non cerca un’altra panchina per guadagnare ancora.
A 59 anni, nel pieno delle forze, dice basta. Si ritira. Torna alla sua vita normale, alla famiglia, agli amici del bar. 
Rifiuta offerte milionarie perché la sua dignità valeva più di un contratto.
«Non mi divertivo più», dirà anni dopo con la solita franchezza disarmante.

COSA RESTA DEL MAGO

Oggi, sui campi di provincia ci sono tanti piccoli Bagnoli. Allenatori che magari non ancora hanno il tablet, ma che sanno guardare negli occhi un ragazzo e capire se ha litigato con la fidanzata. Allenatori che non usano parole inglesi, ma che sanno costruire un gruppo disposto a gettarsi nel fuoco per loro.

Osvaldo Bagnoli ci ha insegnato che per vincere non serve urlare. Serve competenza, rispetto per i giocatori e quella dote rarissima che si chiama buon senso.
Il Verona del 1985 non è stato un miracolo. È stato il trionfo della normalità.

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