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Il tabù del Dall’Ara: Bologna–Juve, la partita che torna sempre uguale e sempre diversa

Dal 3–0 del 29 novembre 1998 in poi, in Serie A a Bologna la Juventus non è più caduta. Non è magia: è un’abitudine che diventa pensiero, poi diventa peso, poi diventa racconto

Il tabù del Dall’Ara: Bologna e Juventus, e quel 3–0 del 1998 che non passa mai

Beppe Signori e Zinedine Zidane

Una data che a Bologna non passa mai

A Bologna certe cose non passano, si sedimentano. Come la nebbia quando decide che il mattino è suo e non te lo restituisce. E così, nel catalogo delle attese rossoblù, ce n’è una che ormai non è nemmeno più una speranza: è un rito laico, un appuntamento con la statistica travestita da destino. La data la sanno anche i muri del Dall’Ara, quei muri che hanno visto il calcio cambiare barba, scarpe, stipendi e facce, ma non certe fissazioni: 29 novembre 1998. Bologna–Juventus 3–0. Paramatti, Signori, Fontolan. Tre colpi nei minuti 3, 9 e 28, cioè il tempo di capire che giornata era e di mettersi comodi. Lì finisce una partita e comincia una storia.

Il Bologna di Mazzone e la Juve dei “nomi grossi”

Perché quel pomeriggio — che oggi si racconta come si racconta una sera buona in trattoria: “c’era tutto, e tutto al punto giusto” — aveva un ingrediente che il calcio di solito non concede: la semplicità feroce. Il Bologna di Carlo Mazzone, uomo che non predicava: cucinava. Dall’altra parte una Juventus piena di metallo e di nobiltà calcistica, con Zidane e Inzaghi, e con Lippi a tenere il volante come si tiene un volante in autostrada. Eppure, in quella mezz’ora, l’autostrada diventa provinciale e la provinciale diventa pista.

Da lì in avanti succede una cosa che nel calcio è comunissima eppure resta misteriosa: il tempo non cancella, raddoppia. Ogni stagione aggiunge un mattone al muro. E il muro, a furia di crescere, smette di essere un muro e diventa un ambiente. Una di quelle “stanze” in cui entri e già sai come risuona la voce.

Ecco perché la parola «maledizione» è comoda ma poco precisa: fa scena, ma non spiega. Qui non c’è il soprannaturale: c’è l’umano, che è molto più ostinato.

Juventus: l’arte di stare dentro le serate sporche

La Juventus, per tradizione e per educazione, è una squadra che sa vivere le partite sporche senza sporcarsi troppo. È una qualità che non fa poesia, ma fa carriera: ti abitui a restare dentro i minuti che non sono belli, a non perdere la testa quando l’aria si fa nervosa, a trattare il Dall’Ara come un luogo dove si può anche soffrire, purché si arrivi vivi al momento giusto.

Nel frattempo, Bologna — che quando si accende sa essere un teatro — spesso si ritrova con un pensiero in più sulle spalle: non “giocare bene”, ma “romperla”. E quando una squadra gioca per rompere qualcosa, rischia di rompersi un attimo prima.

Il tabù, in pratica: ti chiede la partita quasi perfetta

Il tabù funziona così: non ti chiede una partita buona. Ti chiede una partita quasi perfetta. Ti chiede di essere lucido quando l’istinto urla. Ti chiede di non esagerare proprio nel minuto in cui lo stadio ti spinge a esagerare. Perché l’episodio, in una partita normale, è un dettaglio. In una partita-tabù, l’episodio diventa un megafono: lo senti più forte, lo vivi più grande, lo ricordi più a lungo. E allora il racconto si ripete senza ripetersi: cambiano i giocatori, cambiano i sistemi, cambiano i capelli (un tempo si giocava con più brillantina e meno tatuaggi), ma resta quella sequenza di serate in cui Bologna si avvicina, pareggia, resiste, e poi si trova di fronte a un minuto che pesa doppio.

Non è sempre una giocata geniale. A volte è una palla ferma. A volte è un rimpallo. A volte è un cartellino che ti sposta gli equilibri. E spesso è la stessa cosa: la Juventus che aspetta, Bologna che si affretta. Arriviamo così al presente, che nel calcio è un presente di 48 ore ma nella memoria è un presente che dura anni. 14 dicembre 2025: Bologna–Juve si rimette in scena con il suo carico inevitabile. E la serata finisce 0–1.

Un risultato secco, quasi burocratico, che è il modo più crudele per allungare un tabù: senza nemmeno concederti un dramma grande, ma solo quel tipo di amarezza ordinata che ti fa dire “ancora”.

Il tabù non appartiene ai singoli, appartiene alla partita

La cosa buffa — buffa nel senso violaiano del termine, cioè amara ma raccontabile — è che i tabù, quando diventano lunghi, smettono di appartenere ai singoli. Un calciatore può anche non sapere cosa è successo nel ’98: non gli interessa, e fa bene. Ma la partita lo sa. Lo sa lo stadio, lo sa l’attesa, lo sa il modo in cui un fallo laterale diventa improvvisamente “importante”, lo sa il modo in cui una palla inattiva viene guardata con un secondo di sospetto in più. È un sapere diffuso, come l’umidità: non la vedi, ma te la porti addosso.

Come si rompe una serie così?

Non la rompi con la rabbia. La rabbia è un carburante breve.  Non la rompi con l’ossessione. L’ossessione ti fa giocare una partita che non esiste. La rompi con una cosa che sembra banale e invece è difficilissima: una partita normale fatta benissimo. Normale vuol dire: primo tempo pulito, niente fretta, niente “adesso devo spaccare il mondo”. Vuol dire: se sbagli, non diventi un’altra persona per cinque minuti. Vuol dire: i momenti brutti li attraversi senza farli diventare tragedia.

In fondo, il tabù del Dall’Ara non è una favola nera. È un manuale di psicologia calcistica scritto col gesso sul campo e riscritto ogni anno con l’inchiostro del calendario. Bologna e Juve si incontrano, e per Bologna quella partita non è solo una partita: è una domanda che torna.

La domanda è sempre la stessa: «Siamo capaci di vincerla senza farci guidare dal bisogno di vincerla?» 

Se un giorno arriverà il sì, quel muro crollerà in silenzio, come crollano le cose che erano diventate abitudini. E forse, proprio quel giorno, qualcuno a Bologna si sorprenderà a pensare che il tabù, in fondo, era diventato persino comodo: una storia già pronta da raccontare. Ma il calcio, ogni tanto, ama toglierti la storia pronta e costringerti a inventarne un’altra. E lì, finalmente, il 29 novembre 1998 tornerà a essere quello che dovrebbe essere sempre stato: una grande partita del passato. Non un calendario che non ti molla.

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