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17 Dicembre 2025
Tomás Felipe Carlovich, "El Trinche"
Maradona arriva a Rosario e corregge la domanda
Quando Diego Maradona arriva a Rosario per il Newell’s, succede la solita scena: telecamere, domande facili, quell’aria da “evento” che il calcio usa per sentirsi importante. Gli chiedono cosa si provi a essere il più grande visto in città. Maradona, invece di prendersi la corona, la rimette sul tavolo e la spinge verso un nome che fuori da Rosario molti non sanno nemmeno pronunciare bene: Tomás Carlovich. «Il più forte che abbiate visto giocare qui…» dice, più o meno così, e lo chiama: «El Trinche». È una frase breve. Ma a Rosario le frasi brevi non passano: restano.
Chi era: un mancino lento, con idee che correvano più delle gambe
Carlovich era un centrocampista centrale, mancino, uno di quelli che sembrano andare piano finché non capisci che è il resto del campo ad andare troppo veloce. Non aveva il corpo del fuoriclasse “di vetrina” e non aveva nemmeno l’ambizione tipica di chi vuole scalare il mondo. Aveva un’altra cosa, più rara: la sensazione che, in mezzo al rumore, lui potesse scegliere il silenzio. E dentro quel silenzio mettere la giocata giusta.
Rosario: la città che ti fa diventare leggenda o ti dimentica in fretta
Rosario non è un posto neutro: è una fabbrica di calcio e di memoria. Lì il pallone non è intrattenimento, è linguaggio. Se uno gioca davvero, lo sanno. Se uno finge, lo sanno prima. Carlovich è diventato “di Rosario” nel modo più serio: non perché ha vinto tutto, ma perché la città ha deciso che quel modo di toccare il pallone meritava di essere tramandato.
Central Córdoba: la casa, i campi ruvidi e la fedeltà
Il suo nome resta legato soprattutto al Central Córdoba, una squadra che non ti regala fama ma ti chiede fedeltà. Non è la storia del campione che passa e saluta: è quella di uno che torna, riparte, ricomincia. Una carriera laterale, quasi ostinata, dove contano le domeniche più che le copertine. E proprio per questo, quando dici “Carlovich”, non immagini uno stadio luccicante: immagini un campo duro, una tribuna vicina, e la gente che pretende verità.
Il doble caño: la bellezza inutile che diventa necessaria
Il gesto più raccontato è il “doble caño”, il tunnel fatto due volte: avanti e indietro, come se l’avversario fosse un dettaglio e il tempo un giocattolo. È una giocata che non serve a segnare. Serve a dire: «qui comando io». La cosa interessante, però, è che Carlovich non si comportava da santino della propria leggenda. Anzi, spesso riduceva, smontava, sorrideva: Rosario — diceva — ama ingrandire le storie. È un modo elegante per ammettere tutto senza trasformarsi in un personaggio.
1974: l’amichevole contro l’Argentina e quella richiesta che non si dimentica
C’è poi la scena che qualunque rosarino ti racconta con la precisione con cui si racconta un compleanno. Prima del Mondiale 1974 l’Argentina gioca un’amichevole contro una selezione di calciatori nati a Rosario. All’intervallo, Rosario è avanti 3–0. Carlovich è in campo. E la leggenda — quella che gira con più insistenza — dice che l’allenatore dell’Argentina chiese che venisse tolto. Come se fosse troppo. Come se un’amichevole avesse smesso di essere un’amichevole. Finirà 3–1, ma la partita vera, per molti, era finita lì: quando qualcuno decide che per ristabilire l’ordine bisogna togliere di mezzo il talento.
La chiamata mancata: quando la vita vince sul “raduno”
Un’altra storia, più piccola e per questo più credibile: una convocazione della nazionale, un raduno, un’occasione. E lui che non arriva. Secondo il racconto più diffuso, era andato a pescare, l’acqua si era alzata e il tempo — ancora lui — gli aveva chiuso la strada. Non è eroismo. È Carlovich: il calcio grande che chiama e lui che resta nella vita normale, senza pensare di perdere qualcosa. Come se la gloria fosse una cosa che può aspettare. O che non serva.
La consacrazione definitiva: una maglia, una dedica, e una frase da fine film
Molti anni dopo, arriva la scena che sembra scritta apposta per chi ama il calcio come racconto: l’incontro con Maradona e una maglia firmata del Central Córdoba, con una dedica che gira da tempo e che è diventata quasi un timbro ufficiale: «Trinche, vos fuiste mejor que yo» (Trinche, tu sei stato il migliore). Carlovich, leggendo, avrebbe detto qualcosa come: «Ora posso morire tranquillo». E non serve aggiungere altro, perché in quella frase c’è tutto il senso della sua vita calcistica: non il successo, ma il riconoscimento. Non la carriera, ma la verità detta da qualcuno che non aveva bisogno di fare complimenti.
La fine: una bicicletta, un’aggressione, e il saluto di una città
Nel 2020 Carlovich muore dopo un’aggressione durante una rapina della sua bicicletta. È un epilogo brutale, senza poesia. Ed è giusto così: non va addolcito. Quello che resta, invece, è il modo in cui Rosario lo saluta: come si saluta un mito di casa, uno che non è mai diventato famoso “nel mondo”, ma è rimasto grande nel posto in cui conta di più.
Il calcio di oggi è pieno di spiegazioni e povero di misteri. Carlovich, invece, è un mistero che cammina. Un nome che funziona come una parola chiave: ti apre una porta su un tempo in cui il pallone era più sporco, più fisico, più ingiusto… e proprio per questo, forse, più vero. Se lo cerchi, lo trovi sempre nello stesso posto: nell’idea che non tutto debba “servire” per essere grande. A volte basta essere reale. E lasciare una scia.