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«Racing ha smesso di esistere». E poi, "paso a paso": la notte in cui un club “morto” su carta tornò reale

Una frase gelida pronunciata come un verbale, un popolo che risponde occupando il proprio stadio, e un allenatore che cura la paura con due parole ripetute fino a diventare destino. Il finale non lo capisci al primo capitolo

«Racing ha smesso di esistere». E poi, "paso a paso": la notte in cui un club “morto” su carta tornò reale

Reinaldo Merlo e Diego Milito

La frase che spegne la luce
Avellaneda, 4 marzo 1999. Nel calcio argentino la tragedia, quando arriva, non bussa: entra. Quella mattina non si discute di moduli o di mercato, ma di esistenza. La sìndica Liliana Ripoll pronuncia una sentenza che non sembra nemmeno umana: «Racing Club Asociación Civil ha dejado de existir». Non è una metafora, è una formula. È il tipo di frase che, se la traduci, perde sangue: «ha lasciato di esistere». Come se un club fosse una lampadina.

Eppure l’Argentina del pallone ha una regola antica: puoi togliere i soldi, puoi togliere i punti, puoi togliere persino le chiavi. Ma non puoi convincere una fede a smettere di respirare.

Tre giorni dopo: il “partido de los hinchas”
Il 7 marzo, tre giorni più tardi, la risposta non è una conferenza, è un rito. I tifosi riempiono il Cilindro: trentamila persone per dire una cosa sola, senza slogan raffinati. Continuare. Non chiedono un favore, chiedono che la loro vita quotidiana non venga cancellata con una firma.

C’è chi cammina, chi prega, chi urla, chi resta zitto con la faccia di chi ha capito che il calcio non è solo domenica: è appartenenza. E attorno a quella scena si muovono dettagli da film argentino: il redoblante che colpisce Daniel Lalín mentre prova a parlare alla folla, la città che non ragiona più da spettatrice ma da proprietaria emotiva del club. Il senso profondo è sempre lo stesso: Racing non è un’azienda che chiude; è un quartiere che si rifiuta di sparire.

La quiebra, la giustizia, la vita “a rate”
Poi viene il tempo sporco, quello che nei racconti spesso si salta perché non fa poesia: procedure, fallimenti, interventi, pezzi di identità messi all’asta e ripresi con le unghie. La quiebra era stata dichiarata nel 1998, e nel 1999 la liquidazione dei beni sembrava un destino già scritto. Racing vive così: in bilico, ma vivo. E nel calcio argentino, “vivo” è già una categoria morale.

In quegli anni si impara una cosa: il dolore di una classifica lo digerisci. Il dolore di una chiusura, no. Perché una retrocessione finisce in primavera. La parola «non esiste» ti resta addosso per sempre.

Mostaza Merlo: la cabala che diventa metodo
Quando arrivi al 2001, la storia ha bisogno di un protagonista con una voce adatta. Reinaldo “Mostaza” Merlo non entra come un salvatore da copertina: entra come un uomo che sa che, prima delle gambe, deve rimettere in piedi la testa. E sceglie la medicina più argentina di tutte: una frase. Due parole. Una cabala trasformata in disciplina: «Paso a paso».

Non è un motto motivazionale. È un guinzaglio per l’ansia. È dire a un popolo: non guardare il baratro, guarda il prossimo gradino. Merlo lo ripete fino a farlo diventare lingua comune. E quando una lingua comune nasce, una squadra smette di essere un gruppo di giocatori e diventa una cosa più difficile da rompere: un’idea condivisa.

Il campionato: niente trionfalismi, solo tenuta
Racing non vince l’Apertura 2001 facendo il fenomeno. Lo vince facendo la cosa più complicata nel calcio sudamericano: restando lucido. La stagione si chiude con 42 punti, uno in più del River secondo. Sono numeri che non gridano “dominazione”, gridano “resistenza”.

E dentro quella resistenza ci sono scene che sembrano scritte apposta per la memoria: pareggi aggrappati con i denti, vittorie che non liberano eppure costruiscono, partite in cui la pressione sembra una pioggia verticale. “Paso a paso” non è poesia: è una strategia per non andare in frantumi.

Dicembre 2001: il Paese trattiene il respiro, il calcio anche
Arriva dicembre e l’Argentina attraversa una crisi così severa che anche il calendario si piega: la partita decisiva, prevista per il 23, viene rinviata al 27. È come se il Paese intero dicesse: prima sopravviviamo, poi giochiamo. Ma quando finalmente si gioca, succede la magia argentina più semplice: novanta minuti diventano una nazione parallela, dove tutto è ancora possibile.

Liniers, 27 dicembre: un colpo di testa e un pareggio che cambia la geografia
José Amalfitani, Vélez–Racing. Il tipo di partita in cui non “cerchi” la storia: la devi reggere. Racing passa avanti con un colpo di testa di Gabriel Loeschbor, e per un attimo sembra che il cielo si apra proprio lì, sopra Liniers. Poi Vélez pareggia con Mariano Chirumbolo: 1–1. E in quell’istante capisci cos’è davvero il calcio argentino: non una linea retta, ma una fune tesa, dove ogni secondo ti chiede coraggio.

Il fischio finale non è solo un risultato. È una restituzione. Racing è campione dell’Apertura 2001 e spezza una secca lunga 35 anni senza titoli locali. La gente corre, piange, si abbraccia come si abbracciano quelli che si sono riconosciuti dopo una catastrofe.

Obelisco e Avellaneda: l’epilogo che non è un epilogo
C’è una doppia celebrazione: il centro di Buenos Aires e il quartiere che ha tenuto duro. Obelisco e Avellaneda sono due poli della stessa cosa: la dimostrazione che un club può essere “morto” nei documenti e invincibile nella memoria.

E alla fine la poesia è tutta qui: Racing non torna campione perché dimentica il 1999. Torna campione perché se lo porta dietro. Perché quando hai guardato in faccia la parola «non esiste», ogni vittoria successiva ha un sapore diverso: non è gloria. È prova. È presenza. È dire al mondo, con la calma di Merlo e la furia buona della gente: esistiamo ancora.

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