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Calzettoni abbassati, barba incolta e dribbling come atto di ribellione. Storia di un ragazzo che a Torino ha giocato e vissuto con la leggerezza di una farfalla

Il suo possibile passaggio alla Juventus nel 1967 portò alla minaccia, da parte degli operai di fede granata, di boicottare la linea di montaggio della FIAT

Calzettoni abbassati, barba incolta e dribbling come atto di ribellione. Storia di un ragazzo che a Torino ha giocato e vissuto con la leggerezza di una farfalla

Gigi Meroni, la farfalla granata

Apertura: Corso Re Umberto, la fine della festa
Torino, 15 ottobre 1967. È una domenica sera che dovrebbe sapere solo di vittoria. Il Toro ha appena battuto la Sampdoria 4-2 al Comunale, una di quelle partite che ti mandano a casa con la pancia piena di calcio. Gigi Meroni, il numero 7, non ha segnato, ma ha fatto il suo: ha saltato l'uomo, ha inventato, ha divertito.
Ora la folla è andata via, restano i lampioni gialli e l'asfalto umido di Corso Re Umberto. Meroni è con Fabrizio Poletti, il terzino, compagno di squadra e di vita. Attraversano la strada, forse con la leggerezza di chi ha ventiquattro anni e si sente immortale perché gioca a pallone.
Non vedono l’auto che arriva. O la vedono troppo tardi. Poletti viene sfiorato, ferito alla gamba. Meroni viene preso in pieno, sbalzato nella corsia opposta e travolto da una seconda vettura.
A guidare la prima auto non è un nemico: è un ragazzo di 19 anni, tifoso sfegatato del Toro, che in camera ha il poster di Gigi. Si chiama Attilio Romero. Il destino, a volte, ha un senso dell'umorismo macabro che nessuno scrittore oserebbe inventare. Alle 22:40, all’ospedale Mauriziano, la domenica finisce per sempre.

Carta d’identità: Un beatnik con gli scarpini
Luigi "Gigi" Meroni, classe 1943, da Como. In un’Italia in bianco e nero, rigida, democristiana e tatticamente ossessionata dall’ordine, Meroni è una macchia di colore che dà fastidio e incanta.
Porta i capelli lunghi quando non si usa, la barba incolta quando è sinonimo di trascuratezza, gli occhiali strani e vestiti che si disegna da solo. Convive con Cristiana Uderstadt, una donna ancora sposata: per la morale dell'epoca è uno scandalo, per lui è solo amore.
In campo è uguale: gioca con i calzettoni abbassati alla "cacaiola", come Omar Sivori. È un'ala destra che non sta sulla fascia per crossare, ma per duellare. Il suo calcio è fatto di pause, sterzate, tunnel. Non è efficienza industriale, è artigianato puro.

Il Gran Rifiuto: quando la FIAT quasi si fermò per un numero 7
C’è un momento preciso in cui si capisce che Meroni non è solo un giocatore, ma un pezzo di cuore della città. Estate 1967. L’Avvocato Gianni Agnelli vuole portarlo alla Juventus. Offre 750 milioni di lire, una cifra che fa tremare i polsi al presidente del Toro, Orfeo Pianelli. L'affare sembra fatto.
Ma Torino insorge. Non è un modo di dire: gli operai della FIAT, molti dei quali di fede granata, minacciano di incrociare le braccia o di boicottare le linee di montaggio. Non era una questione solo calcistica, ma sociale. La città si riempie di manifesti, la gente scende in piazza, circondano la casa di Pianelli. Agnelli, che capisce gli umori del popolo meglio di chiunque altro, fa marcia indietro. Meroni resta. È la vittoria del sentimento sul bilancio, una cosa che nel calcio moderno suona come una fiaba.

Tre istantanee di una vita breve

  1. San Siro, l’Inter cade: 12 marzo 1967. La Grande Inter di Helenio Herrera non perde in casa da tre anni. È una macchina perfetta. Poi arriva Meroni. Prende palla, non tira subito. Disegna una parabola morbida, un pallonetto che scavalca tutti e si spegne all’incrocio. Finisce 1-2. Il giornalista Gianni Brera, che non amava i fronzoli, quel giorno deve inchinarsi.

  2. La gallina al guinzaglio: Como, un pomeriggio qualunque. Meroni viene visto passeggiare per il centro portando una gallina al guinzaglio, come fosse un barboncino. È la sua risposta silenziosa ai benpensanti, a chi gli dice come deve vivere. Un gesto surrealista, dadaista, perfettamente inutile e quindi meraviglioso.

  3. Il Derby del silenzio: Domenica 22 ottobre 1967, una settimana dopo la morte. Si gioca Juventus-Torino. Lo stadio è una chiesa. Un elicottero lancia fiori sulla fascia destra, quella che ora è vuota. Nestor Combin, il centravanti argentino e grande amico di Gigi, gioca con la febbre a 39 e la rabbia in corpo. Segna tre gol. Il Toro vince 4-0. È il funerale sportivo più bello e straziante della storia del calcio italiano.

Cosa resta: la Farfalla che non è mai invecchiata
Di Gigi Meroni non esistono immagini a colori in alta definizione, non esistono interviste banali da calciatore annoiato di quarant'anni. È rimasto cristallizzato in quei 24 anni, per sempre giovane, per sempre ribelle.
Oggi, a Torino, se passi vicino al cippo commemorativo in Corso Re Umberto, trovi sempre un fiore fresco. Non perché fosse il più forte di tutti — anche se aveva un talento smisurato — ma perché rappresentava la libertà. In un calcio che stava diventando business e atletismo, Meroni ci ricordava che il pallone è, prima di tutto, un gioco. E come ogni gioco, finisce quando viene buio.

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