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18 Dicembre 2025
Facchetti solleva la coppa del Campionato Europeo del 1968
All’inizio si sente solo un fruscio. Una monetina che vibra sul pavimento, rotola, poi si arresta di taglio, infilata nella piccola fessura tra due mattonelle. Fuori, nello stadio, un silenzio irreale: decine di migliaia di persone trattengono il fiato. Dentro, tre uomini inchiodati a un attimo che sembra non finire mai: l’arbitro tedesco Kurt Tschenscher, il capitano dell’Italia, Giacinto Facchetti, e quello dell’Urss, Albert Shesternyov. È il 5 giugno 1968, Napoli, Stadio San Paolo. Dopo 120 minuti di pioggia e 0-0, la semifinale dell’Europeo si decide con il lancio di una moneta. Il primo tentativo si incastra; al secondo, la fortuna sceglie azzurro. E il calcio europeo cambia per sempre il suo immaginario.
Il regolamento dell’epoca prevedeva che, in caso di parità dopo i supplementari, le semifinali si decidessero con un sorteggio. I rigori sarebbero arrivati solo anni dopo, dal 1976, con la finale vinta dalla Cecoslovacchia e il “cucchiaio” di Antonín Panenka a battezzare la nuova era. Fino ad allora, l’imponderabile aveva ancora diritto di cittadinanza. E in quella sera di Napoli l’imponderabile sfoderò tutta la sua teatralità.
Alle spalle degli azzurri c’era la ferita fresca dei Mondiali 1966, l’eliminazione con la Corea del Nord e un sistema calcistico chiamato a ricostruirsi. In panchina c’era Ferruccio Valcareggi; al vertice della FIGC era salito Artemio Franchi, artefice dell’assegnazione all’Italia della fase finale dell’Europeo 1968, organizzata tra Roma, Napoli e Firenze. La semifinale contro i sovietici riportava alla mente l’incrocio del 1966: la vendetta sportiva era un pensiero che covava sotto la prudenza.
Quella sera mancavano pezzi importanti. Nei sovietici non c’era Igor Chislenko, match-winner al Mondiale, e pure Murtaz Khurtsilava era fuori. Nell’Italia, dopo pochi minuti, Gianni Rivera si fece male in uno scontro con Valentin Afonin: non c’erano sostituzioni come le intendiamo oggi, e gli azzurri giocarono praticamente in dieci, come ricorderà Dino Zoff, allora portiere del Napoli. Più tardi si infortunò anche Giancarlo Bercellino, costringendo Angelo Domenghini ad arretrare. Era una partita in trincea, sotto la pioggia.
La gara fu ruvida, bagnata, tesa. Occasioni poche: Piero Prati sfiorò il bersaglio da quindici metri; Zoff si prese la scena con interventi su Shesternyov e due volte su Aleksandr Lenev; allo scadere dei supplementari, Domenghini prese il palo a Yuri Pshenichnikov battuto. Lo 0-0, per una notte, sembrò un verdetto scritto. Settantamila (fino a 75.000 secondo altre stime) nel catino del San Paolo attesero il responso non sul prato, ma in un corridoio.
Finito il gioco, restava il rito. Tschenscher convocò i capitani nel sottopassaggio. Tirò fuori una moneta “vecchia”, come racconterà Facchetti. La prima volta, la moneta sfuggì al controllo, scivolò e — qui inizia la leggenda — si incastrò di taglio nella fessura tra due mattonelle. Lancio da ripetere. Al secondo tentativo, il verdetto. Facchetti partì di corsa su per le scale, rientrò in campo con le braccia al cielo: era fatta. L’Italia era in finale.
C’è un dettaglio che, dopo 57 anni, continua a dividere cronache e memorie: cosa chiamò Facchetti? Alcune ricostruzioni — comprese le note ufficiali UEFA — riportano che il capitano azzurro scelse “croce” (tails). Altre, in Italia, giurano che disse “testa” (heads), e tramandano perfino l’urlo “Sì, testa!” risuonato dagli spogliatoi. La verità, a queste distanze, resta verosimilmente in bilico tra versioni autorevoli ma divergenti: l’unica certezza è che Giacinto indovinò la chiamata e l’Italia passò.
Come spesso accade quando lo sport sconfina nel caso, attorno alla monetina si addensarono sospetti. Si sussurrò che un dirigente — in alcune versioni un funzionario accorso per afferrare il tondello — potesse aver influenzato l’esito, che la moneta fosse “speciale”, addirittura a doppia faccia, o che a Facchetti fossero arrivati “suggerimenti” su cosa chiamare. A distanza di tempo, nessuna prova ha mai consolidato queste voci: restano leggende metropolitane, alimentate dall’eccezionalità del momento e da alcuni dettagli “cinematografici” (la fessura nel pavimento, la pioggia, il sottopassaggio gremito). Le ricostruzioni più sobrie parlano di una moneta straniera — chi dice 5 franchi svizzeri, chi franchi francesi — scelta dall’arbitro e di un sorteggio regolare ma non “televisivo” come accadrebbe oggi. Il fascino del giallo è rimasto, la sostanza non è mai cambiata.
Qui il mosaico resta incompleto. Alcune ricostruzioni italiane indicano una moneta da 5 franchi svizzeri; altre parlano di un franco francese “fuori corso” con Vittoria Alata e Croce di Lorena; altrove si legge di una generica “vecchia moneta” estratta dal taschino. Nessuna fonte ufficiale ha depositato un’identificazione definitiva; il ricordo dei protagonisti, col tempo, si è fatto più evocativo che numismatico. Un esempio perfetto di come, nello sport, i dettagli tecnici sbiadiscano a favore dell’icona.
Nel 1968 il Campionato Europeo prevedeva il sorteggio per semifinale e, in caso di parità nella finale, una ripetizione della partita. Proprio ciò che accadde tre giorni più tardi: Italia‑Jugoslavia finì 1-1 il 8 giugno, e il trofeo si assegnò nella replay del 10 giugno 1968 a Roma: 2-0 con reti di Gigi Riva e Pietro Anastasi. Solo dal 1976 le serie di rigori sostituirono la monetina; l’atto di nascita fu la storica conclusione di Belgrado, decisa dal “Panenka”. In mezzo, una fetta di storia che oggi sembra incredibile, ma che racconta benissimo il calcio di ieri.
La versione UEFA sottolinea l’impatto di Dino Zoff — che giocava “in casa”, essendo del Napoli — e il carisma di Facchetti, il quale ricordò di essere “sceso con il capitano russo” e di aver chiamato la faccia giusta della moneta. Sandro Mazzola e Domenghini fecero chilometri, Prati ebbe la palla per sbloccarla. Dall’altra parte, Shesternyov fu un muro, mentre i sovietici forzarono anche sei corner consecutivi nel primo tempo. Il copione fu più fisico che tecnico.
Kurt Tschenscher, tedesco occidentale, era arbitro internazionale di lungo corso. Gestì la situazione dentro criteri regolamentari e nella cornice di una logistica d’altri tempi: niente tabelloni istantanei, niente immagini live dagli spogliatoi, una massa di addetti che affollava corridoi e spogliatoi. Da qui nasce anche lo scarto tra ciò che oggi ci aspetteremmo da un sorteggio e ciò che allora fu possibile.
La finale fu doppia: 1-1 il 8 giugno e 2-0 il 10 giugno 1968, con Riva e Anastasi a regalare all’Italia il suo primo titolo europeo. La Jugoslavia era squadra colossale, già capace di eliminare l’Inghilterra campione del mondo in semifinale; gli azzurri completarono il capolavoro con il supporto di un Olimpico vestito a festa.
Nel terzo posto, l’Inghilterra superò l’Urss a Roma, mentre a Mosca l’eco del sorteggio di Napoli divenne un rimpianto destinato a durare. Anche questo alimentò, per anni, il racconto di una fatalità difficile da accettare.
Che una moneta si sia incastrata nella fessura tra due mattonelle è un dettaglio che sembra scritto da un romanziere. È però un particolare riportato in più testimonianze giornalistiche italiane, coerente con l’atmosfera di quel sottopassaggio affollato e umido. Sulla faccia chiamata da Facchetti, le divergenze restano: le fonti UEFA parlano di “croce”, alcune testate italiane di “testa”. Assolviamo il passato accettando che, talvolta, la storia sportiva viva anche di memorie non perfettamente sovrapponibili: l’essenziale è che chi c’era — i protagonisti — concorda sul cuore del fatto. E che, soprattutto, il calcio, da quella sera, non fu più lo stesso.
L’idea che una semifinale di un grande torneo si decida sul lancio di una moneta oggi appare quasi surreale. Eppure, fino al 1976, era una soluzione prevista e accettata. Guardare indietro serve a capire perché il calcio abbia introdotto i rigori: per riconsegnare al campo la responsabilità del verdetto, limitando il caso. D’altra parte, quella monetina ricorda che lo sport resta anche dramma e imprevisto — due elementi che non si cancellano, si governano.
Il racconto di Zoff (“giocavamo praticamente in dieci”), la corsa sfrenata di Facchetti verso il prato, il contegno glaciale di Tarcisio Burgnich — “con la fortuna che hai, potevi solo vincere”, gli avrebbe detto — sono frammenti che spiegano perché quel calcio, pur lontano, continui a parlarci. Lontano dalle grafiche 4K, ma vicinissimo all’anima del gioco.
Nel 1968 l’Italia portò a casa il suo primo Europeo dopo una semifinale sospesa su un bordo di metallo. Oggi, con VAR, goal-line technology e una liturgia regolamentare minuziosa, quel finale sembra una reliquia. In realtà è uno specchio: ci ricorda che la credibilità di un torneo è una conquista progressiva e che le regole cambiano perché cambiano cultura sportiva e sensibilità pubblica. E che la grandezza dei campioni si misura anche nella capacità di attraversare l’incertezza senza perdere la dignità del gesto. Giacinto Facchetti, scendendo e risalendo quelle scale, ci ha lasciato un’immagine che non sbiadisce: il capitano che porta una notizia all’intero Paese correndo più veloce di tutte le voci.