Tor di Quinto, una mattina del 1974
Per capire quella Lazio lì, bisogna entrare nello spogliatoio, ma facendo attenzione a dove si mettono i piedi. C’è una riga invisibile che spacca la stanza a metà. Da una parte il clan di Giorgio Chinaglia e Pino Wilson, dall’altra quello di Luigi Martini. Non si parlano, si detestano, a volte girano armati. Durante le partitelle in allenamento volano calci che in Serie A sarebbero da codice penale.
In mezzo a quel delirio di testosterone e follia, c’è un ragazzo biondo che sembra venire da un altro pianeta. Luciano Re Cecconi non appartiene alle faide. Lui prende il pallone, abbassa la testa e corre. Corre per Chinaglia che non rientra, corre per la difesa, corre perché è figlio di muratori e sa che la fatica è l'unica moneta che non si svaluta. In quella santabarbara pronta a esplodere, lui è la miccia bagnata che impedisce all'incendio di distruggere tutto prima della domenica.
Il "Netzer" di Nerviano
Lo chiamavano "L'Angelo Biondo" per quei capelli chiari che, mentre correva, sembravano una scia luminosa, ma il paragone tecnico era più nobile: "Cecconetzer", in onore del tedesco Günter Netzer. Luciano Re Cecconi, nato a Nerviano nel 1948, era l'archetipo del centrocampista moderno trent'anni prima degli altri.
Non era solo un mediano di rottura. Aveva la gamba per strappare palla al limite della sua area e portarla fino a quella avversaria. Era un "tuttocampista" in un'epoca di ruoli fissi. In quella Lazio anarchica e meravigliosa, lui era il bilanciere: se la squadra pendeva troppo in avanti per l'ego degli attaccanti, "Cecco" la rimetteva in asse con due falcate.
Foggia e il Maestro
La carriera di Re Cecconi non si spiega senza Tommaso Maestrelli. È a Foggia, nel sud profondo e polveroso, che i due si trovano. Maestrelli è un allenatore visionario, un padre buono; Re Cecconi è il suo allievo prediletto. Insieme fanno un miracolo in Puglia, poi Maestrelli va alla Lazio (in Serie B) e la prima cosa che chiede al presidente Lenzini è: «Portatemi il biondo».
Arriva a Roma e la squadra cambia volto. Dalla B allo Scudetto in due anni. Il 12 maggio 1974, il giorno della festa tricolore (proprio contro il Foggia), è l'apoteosi di un gruppo che fuori dal campo non cenava insieme, ma in campo, appena l'arbitro fischiava, diventava un blocco di granito. Re Cecconi era il cemento di quel blocco.
Tre fotogrammi di una corsa
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Le origini lombarde: Figlio della nebbia e del lavoro duro. Alla Pro Patria impara che il calcio non è un vezzo, è un mestiere. Lì costruisce quella resistenza fisica mostruosa che gli permetterà di recuperare da infortuni seri in tempi record. Non si lamenta mai. Gioca, cade, si rialza.
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Il gol al Milan: Stagione dello scudetto, ultima di andata. La Lazio vince a San Siro contro i rossoneri. Re Cecconi segna un gol in spaccata al 90’, su assist di D’Amico. È il manifesto del suo calcio: crederci quando gli altri hanno smesso di correre. Quella vittoria fa capire a tutta Italia che la "banda Maestrelli" non è un fuoco di paglia.
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Il Mondiale tedesco del 1974: Re Cecconi è convocato in Nazionale. È l'apice della carriera. Anche se gioca poco, essere lì certifica il suo status: non è più un gregario, è uno dei migliori centrocampisti d'Europa.
Dinamismo come forma d'arte
Il suo non era un calcio di tocco felpato, era un calcio di presenza. Re Cecconi "occupava" il campo. La sua dote migliore era il tempo di inserimento: sapeva leggere dove sarebbe caduta la palla un secondo prima degli avversari. In un calcio italiano lento e tattico, lui portava il ritmo del calcio totale olandese.
Via Nitti, la sera che sbagliò tutto
La storia finisce in un modo che fa male solo a scriverlo, per quanto è assurdo. Roma, 18 gennaio 1977. Sono gli Anni di Piombo, la città ha paura, le pistole sono facili.
Re Cecconi entra nella gioielleria di Bruno Tabocchini, nel quartiere Collina Fleming, insieme al compagno di squadra Pietro Ghedin. Vuole fare uno scherzo, simulare una rapina. Si alza il bavero, tiene le mani in tasca. Dice: «Fermi tutti, questa è una rapina».
Ma il gioielliere ha già subito furti veri, ha la pistola sotto il bancone e non riconosce il calciatore. Spara. Un colpo solo, al petto.
Re Cecconi si accascia. Le sue ultime parole, sussurrate mentre Ghedin cerca di soccorrerlo, sono: «Era uno scherzo, era solo uno scherzo...». Muore poco dopo, a 28 anni, lasciando una moglie, due figli piccoli e una tifoseria che non si riprenderà mai davvero da quel lutto.
La Lazio dello scudetto finisce lì, spezzata prima dalla malattia di Maestrelli (morto pochi mesi prima) e poi da quel proiettile insensato. Di Luciano resta il ricordo di un ragazzo pulito, che correva a testa alta in un mondo che, quella sera, aveva perso il senso della misura.