Un’indicazione stradale per l’inferno e il paradiso
Ad Avellaneda, dove il calcio è una religione monoteista divisa in due chiese (Racing e Independiente), c’è una strada che porta dritta al "Cilindro", lo stadio dell’Academia. Dal 1993 quella via si chiama Pasaje Oreste Omar Corbatta. Non è un omaggio istituzionale, è pura geografia dell’anima. È come se la città ti avvertisse: per entrare nel cuore del Racing, devi passare attraverso la memoria di quest’uomo. Un uomo che su quella stessa strada ha camminato prima come un Dio pagano, e poi come un fantasma che chiedeva spiccioli e un posto per dormire.
Il "Loco" con i calzettoni giù
Lo chiamavano El dueño de la raya, il padrone della linea laterale. Corbatta non usava la fascia destra: la abitava. Fisico minuto, sorriso sdentato che gli valeva il soprannome di "Arlecchino", calzettoni sempre abbassati sugli stinchi nudi.
Tra il 1955 e il 1962, il Racing non è una squadra, è il suo feudo. Gioca quasi duecento partite, segna quasi ottanta gol e vince due campionati (1958 e 1961). Ma i numeri mentono per difetto. La verità storica è un’altra: i tifosi avversari — quelli dell’Independiente, del Boca, del River — facevano la colletta per pagare il biglietto e vederlo giocare. Corbatta era l’unico giocatore che annullava l’odio sportivo: andavano tutti a vedere "il pazzo" che non passava mai la palla perché si divertiva troppo ad averla tra i piedi.
Il segreto indicibile: il Re analfabeta
C’è un’ombra gigantesca che cammina accanto alla sua gloria, ed è quella dell’analfabetismo. L’uomo che sapeva leggere traiettorie impossibili, non sapeva decifrare una sola parola su carta. Non ha mai imparato a leggere né a scrivere.
Le cronache dell’epoca e i ricordi dei compagni restituiscono un’immagine che stringe la gola: nei ritiri, Corbatta prendeva il giornale e fingeva di leggere per ore, annuendo serio alle notizie, per non sentirsi inferiore agli altri. A volte, nella distrazione, teneva il quotidiano al contrario. Nessuno rideva. I compagni lo proteggevano con un silenzio sacro.
Ma fuori dallo spogliatoio, quella fragilità fu la sua condanna. Firmava contratti che non capiva, si affidava a gente che vedeva in lui solo una miniera d'oro con le gambe storte. Guadagnava fortune e le vedeva sparire, incapace di gestire la complessità di un mondo che richiedeva istruzioni per l'uso.
La guerra psicologica degli undici metri
In un calcio di passione, lui era gelido solo in un momento: il rigore. Ne ha tirati 68 in carriera. La leggenda — confermata dalle statistiche — dice che ne sbagliò solo 4.
Il suo metodo era un atto di arroganza pura: si piazzava vicino al pallone e aspettava. Non guardava la porta, fissava il portiere. Aspettava che si muovesse. Se il portiere restava fermo, lui non tirava. Potevano passare secondi interminabili. Alla fine, il portiere cedeva ai nervi, faceva un passo, e Corbatta appoggiava la palla dall’altra parte, piano, come un bacio.
Tre fotogrammi di un genio "sporco"
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Il gol impossibile al Cile (1957): Durante il Sudamericano vinto con i leggendari "Carasucias" (Facce sporche), segna un gol che è un trattato di ostinazione. Dribbla due difensori, poi il portiere. Si ferma. Arriva un altro difensore, dribbla anche lui. Il portiere si rialza, lui lo dribbla di nuovo. Solo quando non c’è più nessuno in piedi, appoggia in rete. La rivista El Gráfico lo definirà "un gol da cartone animato".
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L’unico vivo in Svezia (1958): Al Mondiale svedese, l’Argentina subisce l’umiliazione storica del 6-1 dalla Cecoslovacchia. Tornano a casa coperti di insulti e monete. Tutti tranne uno. Corbatta, in quel disastro, segna tre gol in tre partite. È l'unico che conserva la dignità tecnica mentre il sistema crolla.
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Boca e la solitudine: Passa al Boca Juniors nel 1963. Vince altri due titoli, ma la luce si sta spegnendo. L'alcol non è più un vizio, è un compagno di stanza. Corbatta inizia ad arrivare agli allenamenti ubriaco, o a non arrivare affatto.
Dormire dove si è stati Re
La parabola finisce dove era iniziata, ma nel modo più crudele. Dopo aver vagato in Colombia e nelle serie minori, Corbatta torna ad Avellaneda. È povero, malato di cancro alla laringe, consumato dall'alcol e dalla cirrosi. Non ha una casa.
Il Racing compie l'ultimo gesto d'amore, o forse di pietà: gli allestisce una stanzetta sotto le tribune dello stadio. Lì, dove un tempo la folla urlava il suo nome fino a perdere la voce, Corbatta passa le sue ultime notti, nel silenzio umido degli spogliatoi vuoti.
Muore nel dicembre 1991, a La Plata, in miseria assoluta. Se ne va senza aver mai letto una riga di ciò che i giornali scrivevano su di lui, ma avendo scritto con i piedi alcune delle pagine più belle della storia argentina.