Torino, 10 giugno 1961 Ci sono partite che nascono sbagliate e finiscono nella leggenda. Juventus-Inter del 10 giugno 1961 non è un Derby d’Italia normale. È una ferita politica. L’Inter, furiosa per una decisione della Federazione che ha ordinato di ripetere la gara (inizialmente vinta a tavolino dai nerazzurri per un’invasione di campo), decide per protesta di mandare in campo la Primavera. Dall’altra parte c’è la Juve vera. E c’è Omar Sívori. Un altro giocatore, vedendo di fronte dei ragazzini di 18 anni, forse si fermerebbe, gestirebbe, trasformerebbe la gara in un’amichevole. Sívori no. Sívori sente l’odore del sangue. Ha bisogno di gol per vincere il Pallone d’Oro, ha bisogno di umiliare l’avversario per sentirsi vivo. Quel pomeriggio non gioca: infierisce. Segna una, due, tre, sei volte. Finisce 9-1. L’unico gol dell’Inter lo segna un debuttante, un certo Sandro Mazzola, figlio del grande Valentino. Ma quel giorno la scena è tutta per l’argentino che non conosce il concetto di "fair play", ma solo quello di "vittoria".
L’Angelo dalla faccia sporca Omar Sívori non era un atleta, era una provocazione vivente. Nato in Argentina, cresciuto nel River Plate degli "Angeli dalla faccia sporca", arriva in Italia grazie ai soldi degli Agnelli e diventa subito un caso. Mancino puro – il destro gli serviva solo per salire sul tram, dicevano – giocava con i calzettoni abbassati sulle caviglie, senza parastinchi, offrendo le gambe nude ai difensori come un torero offre il drappo al toro. Lo picchiavano, lui si rialzava, ti faceva un tunnel e ti rideva in faccia. Era un genio maligno, il perfetto contraltare del suo compagno d’attacco John Charles, il "Gigante Buono". Se Charles era la forza tranquilla, Sívori era la scintilla che appiccava l'incendio.
Il record crudele Quei sei gol all’Inter (record in una singola gara di Serie A condiviso con Silvio Piola) sono il manifesto del siorismo. In quella partita non c’è sportività, c’è fame. Sívori sta inseguendo anche la classifica cannonieri e non guarda in faccia nessuno, nemmeno i ragazzini nerazzurri che lo guardano come un idolo. La grandezza di Sívori sta proprio in questo cinismo tecnico: non abbassa il livello del suo gioco per pietà, anzi, lo alza per dimostrare la sua supremazia. Quella partita irreale spinge i giurati di France Football a non avere dubbi: a fine anno il Pallone d’Oro è suo. È il primo oriundo (italo-argentino) a vincerlo.
Tre fotogrammi di un anarchico
Il tunnel come ossessione:Per Sívori il gol non era tutto. Il vero godimento era il tunnel. Si racconta che a volte aspettasse il difensore, rallentando la corsa, solo per potergli far passare la palla tra le gambe. Non voleva solo batterti, voleva ridicolizzarti.
Lo schiaffo al sistema:Nel 1961 Sívori è il padrone del campionato. La sua intesa con Boniperti e Charles chiude un ciclo leggendario (il Trio Magico). Ma mentre gli altri due sono uomini d'ordine, lui è il caos creativo. In un'Italia tattica e catenacciara, Sívori è l'imprevisto che fa saltare gli schemi alla lavagna.
L'addio furioso:Il suo carattere lo porta allo scontro finale con l'allenatore Heriberto Herrera, profeta del "movimiento" (calcio atletico e disciplinato). Sívori, che odia correre a vuoto e ama l'anarchia, se ne andrà al Napoli. Ma il suo cuore resta legato a quella Torino bianconera dove ha dettato legge.
Arte e cattiveria Sívori ha insegnato al calcio italiano che si può essere piccoli e dominare i giganti, a patto di essere più veloci di testa e più cattivi di spirito. Il suo metodo era semplice: prendere palla, puntare l'uomo, saltarlo, aspettare il raddoppio, saltare anche quello. Era un solista in un gioco di squadra, ma un solista così bravo che l'orchestra, alla fine, doveva per forza seguire il suo spartito.
L'ultimo dribbling Di quella partita assurda del 9-1 resta la statistica mostruosa e l'immagine di un uomo che ha giocato a calcio come si vive una guerra privata. Sívori non è stato solo un campione, è stato uno stato d'animo. Quello di chi entra in campo non per partecipare, ma per comandare. E se per farlo doveva segnare sei gol a dei ragazzini, allora ne segnava sei. Perché il talento, quello vero, non fa sconti a nessuno.
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