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Un gesto nato per spazzare l'area, diventato il logo di milioni di album Panini. Storia di un difensore roccioso che è entrato nella leggenda senza mai cercare la copertina

La rovesciata più famosa d’Italia non era un gol: Carlo Parola, l’uomo che volava per dovere

Un gesto nato per spazzare l'area, diventato il logo di milioni di album Panini. Storia di un difensore roccioso che è entrato nella leggenda senza mai cercare la copertina

Carlo Parola

Firenze, 15 gennaio 1950, minuto 80
Lo stadio Comunale di Firenze è una trappola di fango e nervi. Fiorentina e Juventus sono bloccate sullo 0-0. Non è una partita per esteti, è una guerra di trincea.
Verso la fine, un lancio lungo piove nell'area bianconera. Carlo Parola, difensore centrale, si trova nella posizione peggiore: spalle alla palla, faccia verso la sua porta, l'avversario (Egisto Pandolfini) che gli alita sul collo. Un difensore normale cercherebbe di colpirla di testa, o magari lascerebbe rimbalzare sperando nel portiere.
Parola no. Parola stacca da terra, inarca la schiena, porta la gamba destra in cielo e colpisce il pallone con il collo del piede, spedendolo lontano. Clack.
Corrado Banchi, un fotografo appostato a bordo campo, scatta nell'istante esatto in cui il corpo è parallelo al terreno. Quella foto non immortala un gol. Immortala una spazzata. Un gesto difensivo. Un atto di protezione, non di offesa. Eppure, è perfetta.

Il Capitano che non rideva mai
Carlo Parola era torinese fino al midollo, juventino per quindici stagioni (1939-1954), 334 presenze. In un calcio dove i difensori erano chiamati "terzini" e il loro unico compito era non far passare l'uomo (o la palla, mai entrambi), Parola era un'eccezione.
Era elegante, ma di un'eleganza asciutta, militare. Non concedeva nulla allo spettacolo. Se faceva una rovesciata — e ne faceva tante, era la sua specialità — non era per strappare l'applauso, ma perché era il modo più efficace per anticipare l'avversario. Era un leader silenzioso, uno di quelli che ti guardano e capisci che devi correre di più.

I fratelli di Modena e la colla
La carriera di Parola è stata grande (due scudetti, una Coppa Italia, la Nazionale), ma il suo destino cambia davvero quando lui ha già smesso di giocare. A metà degli anni '60, i fratelli Panini di Modena devono scegliere il simbolo per le loro raccolte di figurine.
Vedono quella foto di Firenze. È armonica, dinamica, potente. Tolgono lo sfondo, colorano la maglia di rosso (o di colori neutri) per non fare torto a nessuno, e la stampano sulle bustine.
Da quel momento, Carlo Parola smette di essere Carlo Parola. Diventa "l'omino delle figurine". Generazioni di bambini cresceranno scambiandosi la sua immagine, incollandola, tenendola in tasca, spesso senza nemmeno sapere che quell'acrobata non stava segnando il gol della vita, ma stava solo evitando di prenderne uno.

Tre fotogrammi di una roccia

  1. L'unico italiano a Glasgow: 1947. Si gioca Gran Bretagna contro Resto d'Europa. Essere invitati è come ricevere il Nobel del calcio. Parola è l'unico italiano convocato. Gli inglesi, che il calcio lo hanno inventato ma che spesso peccano di superbia, rimangono a bocca aperta vedendo questo difensore che gioca la palla invece di calciarla via a caso. Lì capiscono che il calcio italiano non è solo catenaccio.

  2. Il naso rotto: Non si contano le volte in cui Parola ha finito la partita con una fasciatura. Il suo calcio era fisico. In un derby contro il Torino, o in una sfida contro il Grande Torino di Mazzola, non si tirava mai indietro. La sua faccia era la mappa delle battaglie combattute in area di rigore.

  3. L'allenatore dello scudetto: Parola tornerà alla Juve come allenatore. Vincerà lo scudetto del 1975. Ma anche in panchina, resterà fedele al suo credo: concretezza. È l'uomo che gestisce la transizione tra la Juve operaia e quella di Trapattoni, sempre con quel profilo basso di chi sa che il calcio è una cosa seria, non un circo.

L'estetica della necessità
La famosa rovesciata insegna una cosa fondamentale: nel calcio di Parola, il bello coincideva con l'utile. Lui non saltava per la foto. Saltava perché, biomeccanicamente, era l'unica soluzione per arrivare sulla palla prima dell'attaccante.
Il suo metodo era l'anticipo. Leggeva il passaggio un secondo prima che partisse. Se arrivava in ritardo (cosa rara), usava l'acrobazia per rimediare. Ha insegnato a tutti i difensori italiani che si può essere spettacolari anche distruggendo il gioco altrui, non solo costruendo il proprio.

Un volto senza nome
Carlo Parola muore nel 2000, ma in realtà non è mai morto. Ogni volta che un bambino apre una bustina di Calciatori Panini, lui è lì.
È il paradosso supremo e bellissimo: il simbolo universale del calcio italiano, l'icona del "gol" per antonomasia nell'immaginario collettivo, è in realtà un difensore che sta calciando via il pallone dalla propria area.
Forse è giusto così. Perché il calcio è fatto di sogni (il gol), ma si regge in piedi grazie a chi, come Parola, si sporca le mani — o si lancia in cielo — per evitare che il sogno crolli.

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