Rio de Janeiro, un pomeriggio del 1958
Fino a quel momento, il calcio era una faccenda ordinata. I difensori difendevano, gli attaccanti attaccavano, e in mezzo c’era una linea immaginaria che nessuno osava superare, come fosse un confine di stato presidiato dai cecchini. Il terzino sinistro doveva stare lì: marcare l'ala, spazzare, restare.
Poi arriva Nílton Santos. Alto, elegante, con la testa sempre alta, come se stesse guardando un orizzonte che gli altri non vedevano.
Mondiale di Svezia, 1958. Brasile contro Austria. Nílton prende palla nella sua metà campo. Invece di passarla, parte. Supera la metà campo. L’allenatore Vicente Feola, che ha il terrore del contropiede, si alza dalla panchina urlando: «Volta, Nílton! Volta!» (Torna indietro!).
Nílton non lo ascolta. O meglio, finge di non sentirlo. Continua a correre, scambia con un compagno, entra in area e segna con un tocco morbido.
Mentre torna verso il centrocampo, Feola si siede e borbotta: «Bravino, questo Nílton».
In quel preciso istante, il ruolo del terzino è cambiato per sempre. Nílton Santos non ha solo segnato un gol: ha stracciato il vecchio regolamento tattico e ne ha scritto uno nuovo.
L’uomo di un solo amore
Nílton Santos (Rio, 1925) è una rarità statistica e sentimentale: ha vestito una sola maglia di club in tutta la vita. Botafogo. Dal 1948 al 1964.
Mentre il Brasile diventava la potenza atomica del calcio, lui era la costante. Ha giocato 723 partite con la maglia della "Stella Solitaria". Non era solo un giocatore, era l’istituzione. Lo chiamavano «A Enciclopédia» non per vezzo, ma perché in campo sapeva tutto. Tattica, tecnica, psicologia, regolamento. Se avevi un dubbio, guardavi cosa faceva Nílton.
Nel 1998, la FIFA lo ha inserito nel "World Team of the 20th Century", e nel 2004 Pelé lo ha incluso nella lista dei più grandi calciatori viventi. Per molti storici sudamericani, è stato semplicemente il miglior terzino sinistro della storia, il padre nobile di tutti i Roberto Carlos e Marcelo venuti dopo.
L’incontro con il Diavolo storpio
La grandezza di Nílton si misura anche nell'umiltà. L’episodio chiave avviene in allenamento, al Botafogo, nel 1953. Si presenta un ragazzino con le gambe storte, un certo Garrincha. Nílton è già un campione affermato, il migliore nel suo ruolo.
Garrincha prende palla e gli fa un tunnel. Poi un altro. Lo ridicolizza.
Un altro "senatore" avrebbe spezzato le gambe al novellino o lo avrebbe fatto cacciare. Nílton no. A fine allenamento va dai dirigenti e dice: «Fategli firmare il contratto subito. Non voglio giocarci contro la domenica, voglio che stia nella mia squadra».
È l’inizio di un’amicizia che porterà il Botafogo e il Brasile sul tetto del mondo. La Saggezza (Nílton) e la Follia (Garrincha) sulla stessa fascia.
Tre fotogrammi di un Professore
-
La rissa di Berna (1954): Nílton era elegante, ma non era un santo. Quarti di finale del Mondiale '54 contro l'Ungheria, la famosa "Battaglia di Berna". La partita degenera in violenza pura. Nílton si scontra con József Bozsik, il grande mediano ungherese. Volano pugni, vengono espulsi entrambi. Escono dal campo picchiandosi. Lì il mondo capisce che quel brasiliano distinto sapeva anche sporcarsi le mani se toccavano la sua bandiera.
-
Il "Nonno" del Cile (1962): Al Mondiale del '62 Nílton ha 37 anni. Per il calcio dell'epoca è un fossile. Eppure è titolare inamovibile. In una partita contro la Spagna, commette un fallo da rigore netto. Ma con una freddezza glaciale, fa un passo fuori dall'area prima che l'arbitro si giri, ingannandolo e trasformando il rigore in punizione. L'esperienza che batte l'occhio umano. Vince il suo secondo Mondiale da protagonista assoluto.
-
Il gol enciclopedico: Non sono tanto i gol (pochi, era pur sempre un difensore), ma il come. Nílton toccava la palla con l'esterno, a testa alta, senza mai guardare i piedi. Aveva la calma di chi sta leggendo il giornale in poltrona mentre attorno c'è l'inferno.
Il calcio è una scienza esatta
Il metodo Nílton era cerebrale. Non correva a vuoto. Correva solo se l'azione lo richiedeva. Ha insegnato che attaccare non è un peccato per un difensore, ma solo se sai coprire il rientro. La sua "Enciclopedia" aveva pagine scritte col sudore, ma rilegate con l'intelligenza. Era moderno cinquant'anni prima della modernità.
Uno stadio, non una statua
Di solito, gli stadi si intitolano ai presidenti o ai bomber. A Rio de Janeiro, lo stadio del Botafogo (l'Engenhão) oggi si chiama Estádio Olímpico Nilton Santos.
Non c'è riconoscimento più grande. È la città che dice grazie non a chi faceva gridare "Gol", ma a chi ha insegnato come si gioca a calcio. Nílton Santos è morto nel 2013, pochi mesi prima che il Brasile ospitasse di nuovo il Mondiale. Se ne è andato con la discrezione con cui usciva dalla difesa palla al piede: in silenzio, testa alta, lasciando a noi il compito di capire quanto fosse stato grande.