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21 Dicembre 2025
Un telefono che squilla e nessuno che risponde. Una casa immobile. E un pensiero secco, definitivo. Fredy Guarín racconta così il punto più basso: «Ero solo, avevo bevuto, chiamavo ma nessuno rispondeva. Ho pensato di farla finita».
Da lì non parte un “amarcord” di fine carriera. Parte una radiografia: depressione, alcol, ricadute, tre tentativi di suicidio, poi la scelta — la più dura — di farsi aiutare. E una frase che oggi ripete come un promemoria quotidiano: «Sto vincendo la mia battaglia».
Non è una storia “sul calcio”. È una storia su cosa succede quando il calcio, che per anni ti tiene in piedi, a un certo punto non basta più.
Negli ultimi mesi all’Inter — tra fine 2015 e gennaio 2016 — Guarín dice di aver cominciato a bere. Non per lo spogliatoio, ma per la vita fuori: separazione, distanza dai figli, un equilibrio familiare che si sfalda. «L’alcol non era il vero problema, era il rifugio».
È la dinamica classica: anestetizzi il dolore, finché il dolore anestetizza te.
In quel periodo, alcune figure dell’Inter (Zanetti, Stanković, Mancini, Icardi, Córdoba) intuiscono che qualcosa non torna e provano ad avvicinarsi. Lui lo sintetizza con una frase che pesa: «Gli altri sì, io no». Perché la mano tesa esiste, ma il passo decisivo deve farlo chi sta affondando.
E intanto c’è l’alibi perfetto: il rendimento. Allenarsi, giocare, segnare. Far sembrare tutto normale. «Funziona lo stesso», ti dici. E ti convinci.
I numeri, del resto, certificano un giocatore centrale: con l’Inter, tra 2012 e 2016, 142 presenze e 23 gol nelle competizioni ufficiali. Ma la traiettoria personale va altrove. Gennaio 2016: Shanghai Shenhua. Un taglio netto con Milano. E, come racconterà, un moltiplicatore di solitudine.
«Mi sono ritrovato solo con il mio problema. Bevevo, mi allenavo, giocavo. E tornavo a bere».
La Cina, per molti, è la meta del salto economico. Per lui diventa una cassa di risonanza. Più soldi, più entourage, più eccessi. Notti lunghe, feste, lusso usato come tappo. Non funziona.
In campo resta competitivo: oltre 80 partite di campionato tra 2016 e 2019, più di 20 gol, e la Coppa di Cina 2017. Fuori, invece, si sfibra tutto. La partita vera non è quella che finisce al 90’.
Il Vasco da Gama (2019) sembra un reset. Guarín racconta di essersi affidato a psicologi e psichiatri e di essersi sentito bene. Poi arriva la pandemia (inizio 2020): stop, isolamento, routine spezzate. E lui lo dice senza giri: «In quel momento è venuto meno ciò che ancora mi salvava: il pallone».
La dipendenza accelera. Il racconto diventa spietato: bevute senza freni, ricerca del rischio, autodistruzione. «Mi sono totalmente abbandonato». È qui che colloca i tre tentativi di suicidio. E qui emerge il dettaglio che conta davvero: le crisi acute arrivano all’improvviso, e basta un attimo — una rete, una persona, una chiamata — per spostare il confine tra “prima” e “dopo”.
Il privato trabocca. Il 1º aprile 2021, a Envigado (area di Medellín), la polizia interviene a casa dei genitori per una lite. Guarín viene fermato e portato in ospedale. Le cronache parlano di “riña” e “aggressione all’autorità”, con sanzioni amministrative. Nei giorni successivi si riferisce che gli esami tossicologici non rilevarono sostanze stupefacenti. Resta il punto centrale: una crisi fuori controllo, ormai impossibile da nascondere.
È una scena che cambia prospettiva anche per chi guarda da fuori: non c’è “l’ex calciatore problematico”. C’è una persona in sofferenza acuta che ha bisogno di presa in carico.
Il cambio di direzione non è una frase motivazionale. È un gesto pratico. In uno dei momenti più neri, Guarín prende il telefono e chiama la psicologa e l’agente. Da lì: una fondazione specializzata, un programma riabilitativo, stop all’alcol, giornate strutturate.
Racconta i primi mesi come una disciplina nuova: sveglia all’alba, orari, terapie, fatica. Niente scorciatoie. Dopo sei mesi riesce a rivedere i figli, che non vedeva da quattro anni: «Non mi hanno perdonato subito, ma poi hanno compreso». Oggi collabora con la stessa fondazione, accanto ai professionisti, per trasformare l’esperienza in un servizio agli altri.
Ricordarlo non è nostalgia: è misura del divario tra l’immagine e quello che può succedere dentro.
Cresce tra Huila ed Envigado, passa dal Boca Juniors, si afferma al Saint-Étienne e poi al Porto. Stagione 2010/11: Europa League vinta, assist per Falcao in finale contro il Braga; in semifinale col Villarreal c’è anche un suo gol nel 5-1 dell’andata.
È il profilo del centrocampista totale: corsa, copertura, strappi, tiro da fuori. All’Inter arriva nel gennaio 2012 e diventa, per un tratto, l’uomo che prova a risolvere le partite con soluzioni difficili: conduzioni verticali, impatto emotivo, leadership di temperamento. In Nazionale: 57 presenze, Mondiale 2014.
Questa parte non “assolve” né “spiega”. Serve a ricordare una cosa semplice: si può essere forti in campo e fragili fuori. E le due cose possono coesistere nello stesso corpo, nello stesso giorno.
Nel racconto c’è un punto che chiama in causa il sistema: qualcuno all’Inter aveva visto segnali e aveva provato a intervenire. Ma cosa può fare, davvero, un club?
Oggi molte società hanno avviato protocolli: psicologi, procedure di allerta, education per staff e giocatori, supporto nei momenti critici. Il problema è intercettare i segnali “silenziosi”: alcol come automedicazione, sonno sfasato, isolamento, irritabilità senza cause sportive chiare.
E soprattutto rompere l’equivoco più pericoloso: il rendimento non è una garanzia di benessere. Puoi giocare bene la domenica e crollare il lunedì.
Guarín insiste su una distinzione netta: l’alcol come sintomo, non come radice. Dietro, depressione non trattata, ansia, dolore, colpa.
E quando parla di risalita, non la riduce alla “forza di volontà”: mette al centro diagnosi, presa in carico, lavoro quotidiano, reti professionali e affettive. Perché il recupero non è lineare. E perché lo stigma, nel calcio e fuori, resta un nemico ostinato: chiedere aiuto viene ancora percepito come una colpa. Invece è un atto di lucidità.
Se c’è un pericolo immediato, chiama il 112 (Numero Unico Europeo) o il 118.
Per ascolto e supporto in Italia:
Telefono Amico Italia: 02 2327 2327 (9:00–24:00) e WhatsApp 324 011 7252
Samaritans Italia: 06 7720 8977 (13:00–22:00)
C’è un’immagine che chiude il cerchio senza edulcorare: Guarín che torna “in campo” non per una partita, ma per rispettare un programma, un orario, una terapia.
Il risultato non si misura al 90’. Si misura ogni mattina, quando suona la sveglia e scegli di alzarti. E di chiedere, se serve, un’altra mano.