La Bombonera, 6 aprile 1986
C’è un pomeriggio che a Buenos Aires non è mai finito. Lo stadio del Boca Juniors è una pentola a pressione pronta a saltare. Di fronte c'è il River Plate, l'eterno rivale.
Quel giorno succede qualcosa di surreale. Il campo è talmente coperto di papelitos (i coriandoli bianchi lanciati dai tifosi) che l'arbitro decide che non si può giocare con il pallone bianco: non si vede nulla. Si decide di usare un pallone arancione, un modello Tango dell'Adidas pensato per la neve europea, finito chissà come in Sudamerica.
In mezzo a quel delirio cromatico, c’è un uomo che cammina mentre gli altri corrono. Norberto Alonso, detto "Beto". Indossa la fascia rossa del River. Sulla carta, in quello stadio, è il Diavolo.
Al 30’ minuto, Alonso sale in cielo. Colpisce di testa quella palla assurda, color arancia meccanica. Gol. Il River vince il Superclásico e il campionato in casa del nemico. Quel giorno Alonso non ha solo segnato: ha firmato l'atto di proprietà del calcio argentino per l'anno 1986.
Il Capitano in smoking
Norberto Alonso non giocava a calcio, lo amministrava. Mancino, numero 10 classico, busto eretto, sguardo alto. Se Bochini (l'altro grande 10 dell'epoca) era il genio della porta accanto, Alonso era l'aristocrazia.
È stato l'icona assoluta del River Plate negli anni '70 e '80. Un trequartista che univa la visione di gioco alla cattiveria agonistica. Perché in Argentina, per essere eleganti, bisogna prima saper sopravvivere ai calci. E Alonso, le botte, le prendeva e le restituiva, ma sempre con quella postura da chi indossa uno smoking in una rissa da bar.
Campione del Mondo nel 1978 (anche se oscurato da Kempes e dagli infortuni), ha vinto tutto ciò che un club può vincere: campionati, Coppa Libertadores e Coppa Intercontinentale.
Il giro della morte
Torniamo a quel pomeriggio del 1986. Il River arriva alla Bombonera già matematicamente campione (o quasi, la partita serviva a certificare la gloria). Il governo argentino, temendo una guerra civile sugli spalti, invia un telegramma al club: «Vietato fare il giro di campo per festeggiare». Sarebbe una provocazione troppo grande.
Nello spogliatoio, i dirigenti tremano. Alonso si alza. Guarda i compagni e dice: «Me ne frego. Noi il giro lo facciamo. Se ci tirano le pietre, che tirino».
Escono. Fanno il giro olimpico sotto una pioggia di sputi, insulti e oggetti contundenti. Alonso cammina davanti a tutti, baciando la coppa immaginaria. È il momento in cui l'eleganza diventa una forma di violenza psicologica. Ha piegato la Bombonera senza alzare le mani, solo alzando la testa.
Tre fotogrammi di un Dieci totale
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La maglia numero 1: Mondiale 1978. L'Argentina assegna i numeri di maglia in ordine alfabetico. Così, per uno strano scherzo del destino, il numero 1 (solitamente del portiere) finisce sulla schiena del fantasista: Alonso. Vedere quel numero sulle spalle di un giocatore di movimento, che danza col pallone, è un'immagine che manda in tilt l'estetica del calcio e lo rende indimenticabile.
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La lista di Diego: Aprile 2020. Maradona, il Dio del Boca, l'uomo che odiava il River per contratto, pubblica la lista dei sei giocatori che lo hanno fatto innamorare del calcio. Tra questi, incredibilmente, c'è Norberto Alonso. Scriverlo pubblicamente, per Diego, è quasi un tradimento. Ma la bellezza del gioco di Alonso era tale da scavalcare l'odio tribale. Diego ammise: «Era un maestro. Giocava con i guanti bianchi».
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Il "No-look" prima che diventasse moda
Decenni prima che il passaggio a sguardo voltato diventasse un contenuto virale per i social, Alonso lo usava come strumento di tortura psicologica. La sua non era vanità, era geometria applicata: puntava gli occhi verso la bandierina per convincere il difensore a spostare il peso da quella parte, e nello stesso istante verticalizzava per la punta. Non cercava l'applauso del pubblico, cercava il ritardo dell'avversario. In quel mezzo secondo in cui il marcatore seguiva i suoi occhi bugiardi, la palla era già in rete. Era l'inganno elevato a sistema di gioco.
La lentezza come arma
Alonso non era veloce di gambe. Non ne aveva bisogno. Il suo metodo era la gestione del tempo. Quando la partita diventava frenetica, caotica, sporca, lui metteva il piede sulla palla. Tutto si fermava.
Obbligava gli altri (compagni e avversari) ad adeguarsi al suo ritmo. Era un direttore d'orchestra che imponeva un adagio in mezzo a un concerto rock. La sua eleganza non era debolezza: era il modo più spietato per dire "qui comando io".
La palla in salotto
Oggi, quella famosa palla arancione del 1986 non è in un magazzino dell'Adidas. È a casa di Norberto Alonso (o nel museo del River, a seconda delle versioni, ma la sostanza è che lui l'ha rivendicata come sua). Se l'è portata via come scalpo.
Ancora oggi, quando si parla di lui a Buenos Aires, i tifosi del River si alzano in piedi. Quelli del Boca, se sono onesti, abbassano lo sguardo e tacciono. Perché sanno che contro quell'uomo, in quel pomeriggio arancione, hanno perso. Ma hanno avuto il privilegio di vedere come si gioca a calcio quando il talento decide di non chiedere permesso a nessuno. Nemmeno alla paura.