Bari, Stadio San Nicola, 24 marzo 1991
Ci sono gol che valgono un punto, gol che valgono tre punti e gol che valgono un’identità.
È un pomeriggio di fine marzo. Il Bari gioca contro il Bologna. La partita è una faccenda ruvida, di quelle che si decidono su un episodio sporco. Pietro Maiellaro prende palla nella sua metà campo. Davanti ha quaranta metri di prato verde e nessuna ragione logica per tirare.
Ma i numeri 10 non usano la logica, usano l'istinto. Maiellaro alza la testa, vede il portiere avversario (Cusin) leggermente fuori dai pali. Non ci pensa. Calcia.
La palla parte con una traiettoria che sembra un arcobaleno disegnato da un pazzo. Sale, sale, sembra uscire dallo stadio, poi scende all'improvviso, "a foglia morta", e si infila sotto la traversa.
Lo stadio resta in silenzio per un secondo, il tempo che il cervello impiega a elaborare l'impossibile. Poi esplode. Quel giorno Maiellaro non ha segnato un gol: ha firmato un manifesto. Ha detto a tutti che a Bari, anche se lotti per non retrocedere, puoi vedere cose che di solito succedono solo al Bernabéu.
Il genio di Candela
Nato a Candela, provincia di Foggia, nel 1963. Pietro Maiellaro non è un prodotto da laboratorio. È figlio del "calcio di strada", quello dove impari a proteggere la palla col corpo perché se te la rubano ti fai male sulle pietre.
Ha girato l'Italia minore – Varese, Palermo, Avellino – portandosi dietro un destro che cantava e una faccia da chi non deve chiedere permesso. Quando arriva al Bari, nel 1987, non è una scommessa: è una certezza tecnica in un corpo che non ama le regole. Lo chiamano "lo Zar" per l'eleganza, ma lui preferisce il campo alla corona.
Non è un atleta, è un artista. Uno di quelli che se la domenica si sveglia con la luna giusta, ti vince la partita da solo; se si sveglia con la luna storta, ti fa giocare in dieci. Ma a Bari lo amano proprio per questo: perché è umano.
La fuga nel bagagliaio
L'arrivo a Bari non è una trattativa di mercato, è un film neorealista. Estate 1987. Maiellaro gioca nel Taranto, i tifosi lo adorano. Ma la società sta fallendo.
Il presidente del Taranto, Vito Fasano, lo convoca. Piange. Gli dice: «Pietro, se non ti vendo al Bari non abbiamo i soldi per iscriverci al campionato. Salvaci tu».
Maiellaro non vuole andare. Vorrebbe l'Empoli, vorrebbe la Serie A subito. Resiste per ore. Poi guarda le lacrime del presidente e firma.
Ma fuori, la città di Taranto è in rivolta. Non accettano che il loro idolo vada ai cugini rivali. Per farlo uscire dalla sede senza essere linciato, lo devono nascondere. Letteralmente. Maiellaro lascia Taranto rannicchiato nel bagagliaio di un'auto, coperto da giacche e borse, come un latitante.
Arriva a Bari così: da traditore per gli uni, da salvatore riluttante per gli altri. Ci metterà poco a trasformare quella diffidenza in amore cieco.
Tre fotogrammi di un talento anarchico
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L'occhiolino al difensore: San Paolo di Napoli. Il Bari deve marcare Maradona. Il compito ingrato tocca ad Angelo Terracenere, mediano "masticatore" di caviglie. Terracenere entra duro, troppo duro. Diego è a terra. Si crea un capannello. Maiellaro si avvicina al compagno, finge di rimproverarlo duramente per placare gli animi, ma mentre lo fa gli strizza l'occhio. È teatro puro.
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"No te preocupes": Maradona, che ha gli occhi anche dietro la testa, vede tutto. Si alza, ignora il dolore e si rivolge a Maiellaro in spagnolo. Non gli dice "dì al tuo amico di smetterla". Gli dice: «Pietro, no te preocupes. Tranquilo. Lui mena a me e io meno a lui». È il riconoscimento tra pari. In quel momento, il Dio del calcio sta parlando con il suo vicario in terra pugliese.

Pietro, no te preocupes. Tranquilo. Lui mena a me e io meno a lui
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La stima del Diez: A fine partita, Maradona va a cercare Maiellaro. Si scambiano la maglia. Anni dopo, Diego dirà in un'intervista che quel numero 10 del Bari era uno dei pochi italiani che gli piaceva davvero veder giocare. Maiellaro risponderà con l'umiltà dei grandi: «Per giocare con Diego, avrei fatto anche il mediano».
La palla non suda
Il calcio di Maiellaro era un inno alla pigrizia intelligente. Non correva mai a vuoto. Aspettava che la palla arrivasse da lui, la addomesticava con la suola (marchio di fabbrica dei sudamericani) e poi inventava.
Era il calcio della "pausa", quello che oggi non esiste più, soffocato dal pressing e dai GPS. Maiellaro fermava il tempo. Quando aveva la palla lui, i compagni potevano respirare e gli avversari potevano solo sperare che non fosse in giornata.
Il Re senza corona
Maiellaro non ha vinto scudetti, non ha alzato Coppe dei Campioni (anche se poi andò alla Fiorentina di Batistuta, ma non era più il "suo" palcoscenico).
Ma se andate a Bari Vecchia e chiedete di lui, vedrete gli occhi della gente brillare. Vi diranno che c'è stato un tempo in cui non serviva invidiare il Napoli.
Perché loro avevano Pietro. L'uomo che ha costretto Maradona a imparare il suo nome. L'uomo che ha dimostrato che per entrare nella leggenda non servono le bacheche piene, basta un pallone calciato da quaranta metri che decide di non scendere mai.