L’imbuto di cemento
Roma, 30 maggio 1984. L’Olimpico non è uno stadio. È una bocca gigantesca che ha ingoiato settantamila anime e ne ha lasciate fuori milioni a trattenere il respiro. L'aria è ferma, umida, sa di fumogeni e di un’attesa che dura da una vita.
Giocare la finale di Coppa dei Campioni in casa sembra il regalo più grande che il destino possa farti. È una promessa fatta dalla geografia: qui non può succedere nulla di male. Invece è una trappola. Perché se vinci è storia, ma se perdi, il lutto te lo porti in camera da letto, nel bar sotto casa, nelle strade che fai ogni mattina.
La Roma ci arriva con il cuore in gola, trascinata da una città che non chiede, pretende. Il Liverpool ci arriva con la faccia rossa di chi frequenta i pub e la bacheca di chi alza coppe per abitudine. Loro sanno una cosa che Roma non sa: le finali non si giocano con il cuore, si giocano con i nervi.

Il vantaggio che sa di rimbalzo
Al 14’ minuto, il destino dà il primo schiaffo. Un’azione confusa, un pallone che carambola, il portiere Tancredi che esce e si scontra. La palla resta lì, sporca, orfana. Phil Neal, terzino inglese con la faccia da operaio, la spinge dentro. 0-1.
Il silenzio che cala su Roma è fisico. È il rumore di un sogno che cade per terra e si scheggia.
Ma la Roma ha un’anima antica. Prima dell’intervallo, Roberto Pruzzo – il "Bomber", l’uomo che vive per il gol come gli altri vivono per l'ossigeno – si avvita in area. È un colpo di testa che non ha logica, ha solo disperazione e tecnica. La palla scavalca Grobbelaar. 1-1.
L’intervallo arriva come una medicina. Ma nel secondo tempo, e poi nei supplementari, succede la cosa peggiore: la paura di perdere supera la voglia di vincere. Le gambe diventano cemento. Falcão, il Divino, accusa la stanchezza. Il tabellone resta fermo e lo stadio comincia a capirlo: si andrà dove il calcio diventa moneta lanciata in aria.
I rigori: cronaca di una cosa che non perdona
Al 120’ è finita, ma non è finita. Si va ai rigori. E lì, sotto la Curva Sud, si scopre subito che la serata non ha intenzione di essere gentile.
Il primo è Steve Nicol per il Liverpool. La tensione è talmente alta che la palla sembra pesare una tonnellata. Nicol tira alto.
L’Olimpico esplode. Sembra un segno. Dio sta guardando giù.
Tocca alla Roma. Va Agostino Di Bartolomei. Il Capitano. Lui non corre, cammina. Ha la faccia scolpita nella pietra, non tradisce un’emozione. Prende una rincorsa breve e tira una cannonata centrale. Gol: 1–0.
L'illusione è perfetta. Siamo avanti.
Va Phil Neal. È un terzino, ma ha i nervi di ghiaccio. Spiazza Tancredi. Gol: 1–1.
Poi succede. Bruno Conti. Il campione del mondo, l’uomo che incantava il mondo. Va sul dischetto. Calcia, ma il corpo va indietro, troppo indietro. La palla si alza, scavalca la traversa, finisce in curva. Sbaglia: resta 1–1.
In quel preciso istante, l’aria cambia. La “finale in casa” comincia a somigliare a una stanza che si restringe. Le pareti dell’Olimpico si chiudono addosso ai giocatori.
Poi:
Graeme Souness, il capitano scozzese del Liverpool, piazza la palla all'incrocio. Gol.
Ubaldo Righetti, giovanissimo, ha il coraggio dell’incoscienza. Gol.
Siamo ancora pari, ma l'inerzia è scivolata via.
Ian Rush, baffi e fiuto del gol, non sbaglia. Gol. Il Liverpool è avanti.
Il clown e la fine
Tocca a Ciccio Graziani. Deve segnare per restare vivi. Ma sulla linea di porta non c'è un portiere normale. C'è Bruce Grobbelaar. Uno che ha combattuto in guerra e che ha deciso che il calcio è un gioco, non una tragedia.
Capisce che Graziani è terrorizzato. Allora inizia a fare il pagliaccio. Mordicchia la rete. E poi fa quella cosa che diventerà leggenda e incubo: le spaghetti legs. Fa tremare le ginocchia, finge di non reggersi in piedi, mima la paura che sta divorando l'avversario.
Graziani guarda le gambe del portiere, non la palla. Parte, tira. La palla si alza. Scheggia la traversa. Vola via. Sbaglia.
Graziani si mette le mani nei capelli, si fa il segno della croce. Sa che è finita.
Alan Kennedy va sul dischetto per il match point. Rincorsa, tiro. Gol. Liverpool vince 4–2 ai rigori.
Il silenzio di un popolo
Il Liverpool alza la Coppa. I giocatori inglesi saltano, ridono. Intorno a loro, il gelo.
Non è il silenzio di uno stadio vuoto. È il silenzio di settantamila persone che non riescono ad alzarsi dal seggiolino perché non hanno la forza fisica di accettare la realtà.
Agostino Di Bartolomei cade in ginocchio. Non piange, perché i capitani di quella pasta non piangono in pubblico. Ma ha lo sguardo di chi vede crollare un impero.
Roma scopre nel modo più violento possibile che l’Olimpico non protegge. Anzi. Quella notte insegna che le ferite più profonde sono quelle che ti fai nel salotto di casa tua, mentre avevi già apparecchiato la tavola per la festa.
Quella partita non è mai finita davvero. È rimasta lì, sospesa a mezz'aria come il rigore di Bruno Conti, a ricordare che nel calcio, come nella vita, essere i favoriti non conta nulla quando la palla decide di non entrare.