Cerca

Trendy news

C’è chi diventa leggenda perché non si lascia catturare: Mágico, il genio pigro che disse no alla gloria per restare libero

Maradona lo definì migliore di sé, il Barcellona provò a domarlo ma si arrese alla sua anarchia

C’è chi diventa leggenda perché non si lascia catturare: Mágico, il genio pigro che disse no alla gloria per restare libero

Jorge Alberto González Barillas, El Magico

Cádiz, dove il tempo non esiste
Cádiz non è una città, è uno stato d'animo. È un lembo di terra buttato nell'Atlantico dove il vento spettina i pensieri e la gente vive con un ritmo diverso dal resto della Spagna. Non si corre, si passeggia. Non si lavora per accumulare, si lavora per vivere.
È l'unico posto al mondo che poteva accogliere Jorge Alberto González Barillas.
Quando arrivò da El Salvador, nel 1982, non sembrava un calciatore. Sembrava un musicista rock che aveva perso la chitarra. Capelli lunghi, sguardo liquido, un sorriso perenne stampato in faccia.
A Cádiz non gli chiesero di essere puntuale agli allenamenti. Non gli chiesero di smettere di fare tardi la notte nei locali di flamenco. Gli chiesero solo una cosa: "Divertici". E lui, che odiava gli ordini ma amava il gioco, prese quella richiesta alla lettera. Trasformò lo stadio Carranza nel cortile di casa sua.

La "Culebra Macheteada"
Mágico González non dribblava. Fluiva. In patria chiamavano la sua finta culebra macheteada (serpente tagliato col machete). Muoveva la caviglia in modo innaturale, elastico, come se l'osso non esistesse. Il difensore vedeva la palla andare a destra, il corpo di Mágico andare a sinistra, e poi si ritrovava seduto per terra senza capire cosa fosse successo.
Non era un atleta nel senso moderno. Era un artista discontinuo. Poteva dormire in campo per ottanta minuti, con le mani sui fianchi, guardando il mare. Poi, improvvisamente, si accendeva. E in quei dieci minuti di luce, faceva cose che in Europa non si erano mai viste.

L'albergo in fiamme e il contratto stracciato
La grandezza di Mágico sta in ciò che non è diventato. Nel 1984, il Barcellona di Menotti e Maradona lo porta in tournée negli USA. Vogliono comprarlo. Sarebbe la coppia di fantasisti più forte della storia.
In un albergo in California scatta l'allarme antincendio. Tutti i giocatori scappano in strada, spaventati. Tutti tranne uno.
I dirigenti del Barça salgono in camera e trovano Mágico a letto, con una donna. Lui li guarda e dice tranquillo: «Io non scendo, ho sonno».
Lì il Barcellona capisce che quell'uomo è ingestibile. Mágico torna a Cádiz. Per molti è un fallimento. Per lui è la salvezza. Non voleva la pressione del Camp Nou, voleva la siesta dell'Andalusia.

Tre fotogrammi di un anarchico

  1. Il gol al Barcellona (1984): Se serve una prova, eccola. Contro il Barça, Mágico prende palla a centrocampo. Parte. Non è una corsa dritta, è una serpentina ubriacante. Salta un uomo, ne salta un altro, entra in area, finta il tiro, mette a sedere il portiere, aspetta che rientri il difensore, scarta pure lui e appoggia in rete. È un gol che umilia la logica difensiva. Il Camp Nou, che tifava contro, si alza in piedi. Non potevano fare altro.

  2. La semifinale del Trofeo Carranza: Mágico arriva allo stadio in ritardo. Ha fatto tardi la sera prima, forse ha bevuto. Il Cádiz perde 3-0 contro il Barcellona all'intervallo. L'allenatore, disperato, lo butta dentro nella ripresa. Mágico, ancora mezzo addormentato, segna due gol e fa due assist. Il Cádiz vince 4-3. A fine partita, lui alza le spalle come a dire: "Visto? Bastava poco".

  3. L'ammissione di Diego: È il sigillo reale. Maradona, che non regalava complimenti a nessuno che non fosse se stesso, un giorno disse ai giornalisti: «C'è uno più forte di me. È salvadoregno e gioca nel Cádiz». Diego aveva capito la verità: Mágico aveva il suo stesso talento, ma non aveva la sua stessa condanna a dover essere il numero uno a tutti i costi.

Il calcio come dopolavoro
Il metodo di Mágico era l'assenza di metodo. «Riconosco di non essere un santo», diceva. «Mi piace la notte, e la mia voglia di far festa non me la toglie nemmeno mia madre».
Non giocava per i soldi, non giocava per la fama. Giocava perché gli piaceva sentire il rumore della palla. Se il calcio diventava un lavoro, smetteva di impegnarsi. Se restava un gioco, era Dio.
A Cádiz lo sapevano. Gli perdonavano tutto. Se non si presentava all'allenamento, l'allenatore mandava qualcuno a svegliarlo a casa, ma non lo multava. Perché sapeva che la domenica, quel dormiglione li avrebbe salvati.

Il tassista che era stato Re
Quando ha smesso, Mágico è tornato in El Salvador. Per un periodo ha fatto il tassista. Immaginate di salire su un taxi e trovare alla guida l'uomo che Maradona invidiava.
Non ha mai cercato di capitalizzare la sua leggenda. Oggi a Cádiz il suo nome è pronunciato con una devozione laica. Non è il ricordo di un campione che ha portato trofei (il Cádiz si salvava a stento), è il ricordo di un uomo che ha insegnato alla città che si può essere immensi anche senza vincere nulla.
Mágico González è la dimostrazione che il talento, quello puro, è selvatico. Se provi ad addomesticarlo, muore. Se lo lasci libero, magari non vincerà la Champions League, ma non lo dimenticherai mai più.

Commenta scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Sprint e Sport

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter