I miliardi della Juventus non bastarono a comprargli il cuore, con il suo mancino regalò lo scudetto agli ultimi, scegliendo di diventare eterno senza mai cambiare maglia
Un record azzurro che resiste da mezzo secolo e una potenza di fuoco antica, il campione che ha fatto più rumore con i gol che con le parole
Cagliari, primavera 1970 L’Amsicora non è uno stadio. È un fortino in mezzo al Mediterraneo. Sugli spalti c’è un popolo intero, pastori, operai, pescatori, che per decenni ha guardato il "Continente" con la testa bassa. In campo c’è una squadra con la maglia bianca e i laccetti sul petto. E davanti a tutti c’è lui. Luigi Riva da Leggiuno. Zigomi alti, sguardo che taglia l’aria, gambe potenti come tronchi di quercia. Quando prende palla, lo stadio trattiene il respiro. Riva carica il sinistro.Boom. Gianni Brera non ha dovuto inventare nulla quando lo ha chiamato "Rombo di Tuono". Il suono del suo tiro non è uno schiocco, è un'esplosione sorda. Quel giorno il Cagliari batte il Bari. Lo scudetto, per la prima e unica volta nella storia, attraversa il Tirreno e sbarca in Sardegna. Non è una vittoria sportiva. È una rivincita sociale. E la firma è di quell’uomo che non ride mai, ma che ha regalato a un’isola il diritto di sentirsi capitale.
Il lombardo che divenne sardo Gigi Riva era nato povero in Lombardia, orfano di padre, cresciuto in collegio. Aveva la fame di chi deve conquistarsi ogni centimetro. Arriva a Cagliari ragazzino e trova una terra aspra, dura, silenziosa come lui. È amore a prima vista. In campo era una forza della natura. Mancino puro (il destro gli serviva solo per l'equilibrio), stacco di testa imperioso, coraggio da leone. I difensori lo picchiavano, lui si rialzava senza un lamento e li puniva. Il suo record in Nazionale è una sentenza scolpita nel marmo: 42 partite, 35 gol. Una media spaventosa (0,83 gol a partita) che nessuno, da Baggio a Del Piero, da Totti a Vieri, è mai riuscito nemmeno ad avvicinare.
Il Gran Rifiuto Ogni estate, la storia si ripeteva. Arrivava la Juventus degli Agnelli. Arrivava l’Inter di Moratti. Valigie piene di miliardi. Offrivano a Riva ponti d'oro, auto veloci, la gloria delle metropoli. Riva ascoltava, ringraziava e diceva: «No». Non era un no ideologico. Era un no esistenziale. «Lì sarei uno dei tanti», diceva. «Qui sono tutto». A Cagliari poteva girare per strada e la gente lo proteggeva, lo rispettava, non lo assillava. Aveva trovato una famiglia allargata di un milione di persone. Scegliere di restare, in un calcio che già iniziava a seguire i soldi, fu il gesto più rivoluzionario della sua carriera.
L’Europeo del ’68:Roma. Finale ripetuta contro la Jugoslavia. Riva rientra da un infortunio, ha la pubalgia, mezza gamba fuori uso. Ma deve giocare. Al 12’ prende palla in area. Non la stoppa. Si gira e tira di sinistro rasoterra. Gol. L’Italia vince il suo primo (e per cinquant'anni unico) Europeo grazie a lui. Zoppo, ma letale.
La rovesciata di Vicenza:C’è un gol che spiega chi era Riva. Cross dalla destra. La palla è alta, arretrata. Riva non la aspetta. Si lancia in cielo. Una rovesciata perfetta, potente, stilisticamente violenta. Il difensore del Vicenza cade a terra per lo spostamento d'aria. La palla spacca la porta. È la sintesi della sua estetica: bellezza brutale.
Il sacrificio:Vienna, 1970. Qualificazioni europee. Un difensore austriaco, Hof, gli entra da dietro.Crac. Perone e legamenti saltati. Riva è a terra. È il secondo grave infortunio in Nazionale (nel '67 si era rotto l'altra gamba). Ha dato tutto per la maglia azzurra, letteralmente pezzi del suo corpo. Tornerà, ma non sarà più lo stesso.
Il coraggio di mettere la testa dove gli altri non mettono il piede Il metodo Riva era l'assenza di paura. In area di rigore, dove volavano gomitate e tacchetti, lui ci andava a testa bassa. Non cercava il rigore, cercava il gol. Il suo sinistro era un’arma balistica. Non calciava di piatto per piazzarla, calciava di collo pieno per sfondare. I portieri dell’epoca raccontano che parare un tiro di Riva faceva male alle mani. Era un calcio fisico, diretto, senza fronzoli. Esattamente come lui.
Il silenzio del mito Gigi Riva è rimasto a Cagliari fino all'ultimo giorno. È invecchiato lì, passeggiando per via Roma con il bavero alzato, salutato con un cenno del capo dai cagliaritani che lo veneravano come un santo laico. Non ha mai fatto l'opinionista urlante in tv, non ha mai venduto la sua immagine. È rimasto il Team Manager della Nazionale campione del mondo 2006, l'ombra protettiva per i nuovi campioni. Quando se n'è andato, nel 2024, la Sardegna si è fermata. Non è morto un ex calciatore. È morto un pezzo di identità. Resta quel numero impressionante: 35 gol. E resta la lezione più grande: si può essere giganti anche restando in provincia, se quella provincia ti fa sentire un Re.
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