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Ventiquattro colpi e un urlo all’Azteca: l’operaio del gol che fece tremare Pelé e si prese l'area di rigore come una proprietà privata

Non era elegante, era definitivo. Con un suo gol inaugurò la Partita del Secolo e poi spaventò anche il Brasile dei marziani

Ventiquattro colpi e un urlo all’Azteca: l’operaio del gol che fece tremare Pelé e si prese l'area di rigore come una proprietà privata

Roberto Boninsegna detto "Bonimba"

Città del Messico, dove l’aria manca
17 giugno 1970. Stadio Azteca. L’aria è rarefatta, il caldo ti entra nei polmoni come sabbia. Italia-Germania Ovest. Tutti ricordano la fine di questa storia: il 4-3, Rivera, i supplementari, Beckenbauer con il braccio al collo. È l'epica del dolore e della resistenza.
Ma l'epica ha bisogno di un innesco. E l'innesco, quella sera, è un uomo con le spalle larghe e la faccia di chi non è lì per fare amicizia.
Minuto 8. Roberto Boninsegna riceve palla, avanza, tira. Gol.
Mentre il mondo si prepara a soffrire per due ore, lui ha già timbrato il cartellino. Quella rete è un messaggio brutale ai tedeschi: noi siamo qui, e io non ho paura. Per novanta minuti, Boninsegna tiene in piedi l'attacco azzurro da solo, facendo a gomitate con i giganti. La "Partita del Secolo" è diventata leggenda grazie ai supplementari, ma è esistita grazie a quel gol al minuto otto.

Bonimba, il suono della battaglia
Gianni Brera, che le parole le pesava col bilancino, lo chiamò "Bonimba". Un suono onomatopeico. Metà "bomber", metà "Bagonghi" (un nano del circo, per via della statura non eccelsa ma compatta). Suonava come un tamburo di guerra.
Nato a Mantova nel 1943, Boninsegna non è stato un predestinato. Ha mangiato la polvere della provincia (Prato, Potenza, Varese), è andato a farsi le ossa persino in America (ai Chicago Mustangs) quando il calcio USA era pionierismo puro. Ha imparato che il gol non è un diritto, è una conquista.
Quando arriva all'Inter, diventa la sentenza. Mancino letale, acrobatico (le sue rovesciate erano atti di violenza estetica), cattivo quanto basta. Non chiedeva il passaggio pulito: gli bastava una palla sporca per trasformarla in oro.

La matematica del dominio
Stagione 1970-71. L'Inter vince lo scudetto in rimonta. Boninsegna segna 24 gol in 28 partite.
Leggete bene il numero: 24.
In quegli anni, le difese italiane erano campi minati. I marcatori ti seguivano pure in bagno. Segnare 24 gol significava avere una media mostruosa. L'anno dopo ne fa 22. Si prende il titolo di capocannoniere due volte di fila.
In quel biennio, Boninsegna smette di essere solo un buon attaccante e diventa l'assicurazione sulla vita dell'Inter. I compagni sapevano che bastava buttare la palla là davanti: Bonimba ci avrebbe pensato.

Tre fotogrammi di una carriera di piombo

  1. L'illusione contro i Marziani: Finale Mondiale 1970. Italia-Brasile. Pelé ha appena segnato un gol di testa che sfida la gravità. L'Italia è sulle gambe, stanca morta dalla semifinale con i tedeschi. Sembra finita. Ma al 37', Boninsegna sfrutta un errore della difesa brasiliana. Non ci pensa, si butta, anticipa il portiere, segna. 1-1. Per un tempo, grazie a lui, l'Italia crede di poter battere la squadra più forte di tutti i tempi. È il gol della dignità.

  2. La lattina e il teatro: Ottavi di Coppa Campioni 1971, Borussia Mönchengladbach-Inter 7-1. Una disfatta. Ma Boninsegna viene colpito da una lattina di Coca-Cola lanciata dagli spalti. Cade a terra. Svenimento? Astuzia? Mestiere? Forse tutto insieme. La partita viene annullata e ripetuta. L'Inter passa il turno. Boninsegna, anche da terra, era riuscito a essere decisivo. Era il calcio di allora: o mangi o vieni mangiato.

  3. La vendetta dell'anziano: 1976. L'Inter lo scambia con la Juventus. Prendono Anastasi (più giovane) e danno via Boninsegna (33 anni), considerato finito. Un errore fatale. A Torino, Boninsegna vive una seconda giovinezza. Vince due scudetti e una Coppa UEFA (1977), il primo trofeo internazionale della Juve, segnando in finale. È la rivincita dell'orgoglio operaio contro chi lo aveva rottamato troppo presto.

L'area è proprietà privata
Il metodo Boninsegna era semplice: occupazione fisica dello spazio. Non era altissimo, ma in area saltava come una molla. Non era velocissimo, ma aveva il tempo di reazione di un cobra.
Il suo carattere era spigoloso. In campo non faceva prigionieri. Se c'era da mettere un gomito in faccia per prendere posizione, lo metteva. Se c'era da tuffarsi per un rigore (arte in cui era maestro), si tuffava. Non giocava per lo spettacolo, giocava per il tabellino.

Il nome che rimbomba ancora
Oggi Roberto Boninsegna è un signore distinto che parla poco. Ma il suo nome, "Bonimba", continua a rimbombare come un eco lontano.
Resta uno dei centravanti più prolifici e decisivi della storia italiana. Un uomo che ha segnato in una semifinale e in una finale Mondiale (cosa riuscita a pochissimi eletti), che ha vinto scudetti a Milano e a Torino, che ha fatto gol in ogni modo possibile.
Forse non aveva la poesia di Rivera o la potenza di Riva, ma aveva qualcosa che nel calcio vale quasi di più: l'affidabilità. Quando la palla scottava e la storia chiamava, Roberto Boninsegna rispondeva sempre "presente". E di solito, un attimo dopo, il portiere doveva raccogliere la palla in fondo al sacco.

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