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Arrivò dal calcio britannico con un fisico da corazza: gol, trofei, un Mondiale sfiorato e un gesto di sportività che in Italia si racconta ancora

Il gigante buono che fece parte del "Trio delle Meraviglie" e in cinque stagioni a Torino divenne leggenda senza fare rumore

Un pomeriggio d’autunno, una gomitata involontaria, l’arbitro che lascia correre, invece di andare dritto e segnare un calciatore della Juventus fece il contrario. E si trasformò da centravanti a un m

John Charles e a destra con Sivori e Boniperti

Un uomo grande entra in una città grande
Torino, fine anni Cinquanta: nebbia che impasta i viali, cappotti scuri, il passo svelto di chi non si ferma a guardare. In quella cornice un calciatore non deve “piacere”: deve reggere. John Charles regge subito, e lo fa senza dichiarazioni, senza frasi per la stampa, senza quelle scene che trasformano un arrivo in un manifesto.
La Juventus lo prende e lo mette al centro di un’idea: un attacco capace di far convivere istinto e disciplina, fantasia e ordine. Charles, paradossalmente, è entrambe le cose. Un gigante che non ha bisogno di spaventare nessuno per farsi rispettare.

Leeds, prima del mito: quando un centravanti nasce in difesa
Prima di essere il nome che Torino pronuncia con un rispetto quasi familiare, Charles è un ragazzo gallese che cresce nel calcio inglese. A Leeds non lo vedono subito come punta: lo usano anche dietro, perché il corpo è già quello di un adulto e la testa ragiona come un veterano. È uno che sa marcare e sa attaccare: sembra una contraddizione, invece è la sua natura.
Poi il calcio fa la sua selezione: c’è un momento in cui capisci dove fai più male. Charles, quando viene spostato stabilmente più avanti, comincia a segnare con una regolarità che non è “fiammata”, è sistema. Diventa capitano e poi miglior marcatore della First Division: in un’Inghilterra che non regala nulla, è un biglietto da visita che pesa.

Juventus: la forza che non urla
Quando arriva a Torino nel 1957, Charles non porta solo gol. Porta un modo di stare in campo che gli italiani riconoscono subito come raro: la potenza senza brutalità, la durezza senza cattiveria.
Il suo calcio è pulito anche quando è dominante. Non “carica” i difensori: li sposta. Non si vendica: riparte. È il tipo di atleta che, se vince un duello, non lo festeggia come un’umiliazione dell’altro. Semplicemente, lo ha vinto.

In cinque stagioni bianconere mette numeri che oggi, in un’epoca ossessionata dai dati, sembrano scritti apposta per un poster: 108 gol in 155 partite. E dentro quel pacchetto ci sono tre scudetti e due Coppe Italia. E poi una stagione, la prima, in cui capisci che non è “uno forte”: è uno che cambia il peso specifico della squadra. 

Il tridente e la parte più difficile del lavoro
In squadra ci sono personalità che brillano in modi diversi. C’è chi inventa, chi accende, chi fa innamorare. E poi c’è quello che rende tutto possibile senza prendersi la scena.
Charles, con compagni come Boniperti e Sivori, diventa l’equilibrio che regge l’estro. È la punta che dà un senso ai passaggi difficili, che trasforma un cross “così così” in un’occasione vera, che fa salire la squadra perché ogni rinvio lungo, con lui, non è mai un pallone buttato via.

Il suo colpo di testa non è solo forza: è tempo. Non “salta alto”, salta giusto. E quando un centravanti salta giusto, il portiere spesso capisce la traiettoria solo quando la palla ha già preso la strada cattiva.

1957–58: quando la Serie A scopre che anche un britannico può essere poesia
Il campionato italiano è un mondo a parte: più chiuso, più tattico, meno indulgente. Charles entra e non chiede permesso. Nella stagione 1957–58 è capocannoniere con 28 gol: non è un dettaglio, è la prova di adattamento totale. 
Quello è l’anno in cui la sua figura diventa iconica: la potenza, sì, ma soprattutto la sensazione che ogni sua scelta abbia una logica. Non segna “per caso”. Segna perché l’azione, con lui, sembra sempre avere un’uscita.

Il “Gigante buono”: un soprannome che non è un trucco
In Italia i soprannomi spesso sono maschere: servono a semplificare. “Il Gigante buono” a Charles non semplifica: spiega.
Perché la cosa che sorprende davvero non è che sia forte. È che sia forte e corretto, sempre. Le biografie lo ricordano come un calciatore mai ammonito né espulso in tutta la carriera: una frase che, detta oggi, suona quasi irreale. 
Non è moralismo: è stile. È una disciplina personale che si vede nelle piccole cose, e che alla lunga diventa identità.

La gomitata involontaria e la porta spalancata: la scena che in Italia non si è persa
E poi c’è l’episodio che in molte ricostruzioni viene tramandato come la sintesi perfetta dell’uomo. Un contatto involontario, un avversario che resta giù, l’arbitro che lascia correre e la tentazione più naturale del calcio: andare, tirare, segnare.
Secondo i racconti, Charles fa il contrario: si ferma, torna indietro, si assicura che l’altro stia bene. Non è il “cuore” della sua carriera, ma è uno di quei frammenti che restano perché sembrano scritti apposta per spiegare un carattere. 

Wales 1958: un Mondiale visto da vicino e perso per un dettaglio
Se si vuol capire quanto fosse “totale” Charles, bisogna guardare anche fuori da Torino. Con il Galles gioca quindici anni, 38 presenze e 15 gol: numeri importanti per una nazionale che non vive di abbondanza. 
Nel Mondiale del 1958, in Svezia, il Galles arriva ai quarti e si trova davanti il Brasile. Una partita decisa da un solo gol, segnato da un giovanissimo Pelé. Charles non la gioca: è infortunato. E nelle cronache e nelle memorie resta quell’idea sospesa, quasi dolorosa, del “se ci fosse stato…”. Anche qui: non serve trasformarlo in leggenda. Basta ricordare che certe carriere sono fatte anche di assenze che pesano più delle presenze. 

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