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Boca, anni Sessanta: il calcio come appartenenza, Rojitas come simbolo e un Maradona bambino che capisce cosa vuole diventare

Il ragazzo dalla vita snodata che rifiutò il Real Madrid e insegnò a sognare a un bambino riccioluto, seduto con suo padre sugli spalti della Bombonera

Ángel Clemente Rojas

Ángel Clemente Rojas

L'angelo con la vita snodata e il bambino che guardava dagli spalti

Buenos Aires, 19 maggio 1963.
Dovete immaginarvela quella domenica. L’autunno australe che inizia a mordere le caviglie, l’odore del Riachuelo che risale umido e pesante, mischiandosi al profumo dei choripanes che sfrigolano fuori dallo stadio. La Bombonera non è un edificio, è una cassa di risonanza cardiaca. Quel giorno il Boca Juniors gioca contro il Vélez Sarsfield.

Finisce 3-0.
Se prendete i giornali del lunedì, quelli con l'inchiostro che ti macchia le dita e la carta ruvida, leggete un nome solo: Omar Corbatta. Un fenomeno, il "loco", uno che i gol li segnava ridendo. Ne fa tre, su rigore, su azione, in ogni modo.
Ma il tabellino, nel calcio, è spesso un bugiardo autorizzato. Perché la verità di quel pomeriggio non è scritta nei gol. La verità è in un ragazzino di diciotto anni che indossa la maglia azul y oro come se fosse un pigiama di seta.

Si chiama Ángel Clemente Rojas.
Ma per la gente, da quel pomeriggio e per l’eternità, sarà solo "Rojitas".
Non è un diminutivo, attenzione. In Argentina, aggiungere quel suffisso non serve a rendere le cose più piccole. Serve a portarsele in tasca, vicino al cuore. Serve a dire: "Questo è mio, è roba nostra".

L'ombra del genio e lo sguardo di un bambino

In quella partita, Rojitas non segna. Ma fa qualcosa di più pericoloso: procura due rigori e una punizione dal limite. I difensori del Vélez, gente abituata a trattare gli stinchi come legna da ardere, non riescono a prenderlo. Lui non corre, scivola. Ha la vita snodata, una cintura che sembra fatta d’acqua. Finge di andare a destra, e il suo corpo è già a sinistra.
E qui, signori, la storia si ferma e chiede un attimo di silenzio.
Perché su quegli spalti, in quelle domeniche lì, c’è qualcun altro.

C’è un bambino.
Viene da Villa Fiorito, ha i capelli ricci che sembrano una spugna scura e gli occhi che divorano il mondo. Si chiama Diego. È piccolissimo, ma è lì. Suo padre, "Chitoro", lo porta a vedere il Boca. E quel bambino, che un giorno diventerà Dio, non guarda Corbatta. Guarda Rojitas.
Diego Armando Maradona cresce con quel poster nella testa. La "cintura" di Rojitas, quel modo di usare il corpo come un inganno per i difensori, è l'alfabeto con cui Diego scriverà poi la Divina Commedia del calcio. Rojitas è l'idolo che Diego non ha mai smesso di amare, il precursore, colui che ha acceso la luce nella stanza buia prima che arrivasse il Sole.

Il ginocchio e il patto col destino

Ma il calcio, si sa, è un debitore che si presenta presto all'incasso.
La storia sembra pronta a decollare, invece si schianta. Sempre nel 1963, il ginocchio di Rojitas fa crack. Legamenti, menisco. In quegli anni, un infortunio del genere è una sentenza di morte civile per un calciatore. Il chirurgo scuote la testa, i giornali preparano i necrologi sportivi.
È in quei mesi di silenzio, di ospedali che sanno di alcol e disperazione, che si capisce la pasta dell'uomo. Rojitas non è un poster. È un guapo che non ha bisogno di urlare. Torna. E quando torna, non chiede spiegazioni.

Arrivano il 1964 e il 1965. Il Boca vince il campionato. Due volte.
Ma quei titoli non sono solo trofei da mettere in bacheca a prendere polvere. Sono la certificazione che il ragazzo è diventato l'uomo. Quel Boca non è più una squadra: è un culto, e Rojitas è il suo sciamano.
La gente alla Bombonera impara una nuova abitudine. Non si alza quando la palla entra in rete. Si alza prima. Si alza quando la palla arriva a lui. È un riflesso condizionato, un brivido elettrico. Sanno che sta per succedere qualcosa che non si può raccontare al bar, bisogna averla vista. L'eleganza non è un orpello, è l'unico modo possibile per sopravvivere in quella giungla.

La Nazionale e l'assolo al Monumental

Con la Selección, la maglia dell'Argentina, gioca poco. Due partite. Sembra quasi che il destino voglia tenerlo tutto per il Boca, geloso. Ma in una di quelle due partite, il 14 luglio 1965, contro il Cile, Rojitas decide di lasciare la firma. Al Monumental. Un gol solo. L'1-0. Pulito, netto, sufficiente.
È come se avesse detto: "Vedete? Potrei farlo ovunque, ma scelgo io dove essere re".

Don Alfredo e la consacrazione

Passano gli anni, la luce rischia di affievolirsi, la vita fuori dal campo a volte è più complicata di un dribbling. Si parla di declino. Ma poi, alla fine degli anni Sessanta, sulla panchina del Boca si siede un signore che di calcio ne ha visto abbastanza. Alfredo Di Stéfano. La Saeta Rubia.
Di Stéfano guarda Rojitas e capisce. Non cerca di ingabbiarlo, cerca di responsabilizzarlo.
Il 1969 e il 1970 sono gli anni della maturità artistica. Il Boca vince la Copa Argentina e due campionati Nacional. Rojitas non è più solo la scintilla, è il fuoco che scalda la casa. 222 partite, 79 gol. Cinque titoli. Ma i numeri, come detto, sono freddi. Non spiegano perché, cinquant'anni dopo, se dici "Rojitas" a La Boca, vedi gli occhi lucidi dei vecchi che masticano tabacco.

Il "No" al Real Madrid: questione di sangue

C'è un momento, però, che definisce la leggenda più di ogni trofeo.
Siamo in tournée. Dall'altra parte del campo c'è il Real Madrid. Le maglie bianche, l'aristocrazia, i soldi, la gloria planetaria. Rojitas gioca da par suo, ne fa due, li fa impazzire.
Il Real Madrid bussa alla porta. Vogliono portarlo in Spagna. È il treno che passa una volta sola.
Rojitas li guarda e risponde con una semplicità disarmante, quasi infantile nella sua purezza: «Ho detto di no perché volevo stare tutta la vita al Boca».
Non è una scelta professionale. È una scelta di vita. È la differenza tra chi vuole essere ricco e chi vuole essere amato. In quel rifiuto c'è tutta l'anima del quartiere, l'orgoglio di chi sa che non esiste un altrove migliore di casa propria, anche se il tetto perde un po' d'acqua.

L'eredità di bronzo

Nel 1971 se ne va. Altre maglie, altre storie minori, il rumore che si abbassa finché non resta che il silenzio della memoria. Ma la memoria, a Buenos Aires, è una bestia strana: dimentica i contabili e conserva i poeti.
Nel 2014, nel museo del Boca Juniors, inaugurano una statua. Rojitas è lì, immobile nel bronzo, eppure sembra ancora che stia per fare quella finta di corpo.
È un gesto definitivo.

Rojitas ha abitato il Boca senza chiedere il permesso al tempo. È stato il primo amore di Diego, e basterebbe questo per dargli un posto in Paradiso. Ma è stato di più. È stato la dimostrazione che alla Bombonera non serve vincere il Pallone d'Oro per essere immortali. Basta aver fatto sognare un bambino sugli spalti, convincendolo che con una finta di vita si può ingannare anche la tristezza.

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