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Ritratto del capitano che non usava le parole ma i gomiti e quando si arrotolava le maniche della maglia cambiava il destino

Dal fango del Filadelfia al muro di Superga: cronaca di come undici figli della classe operaia diventarono i padroni del mondo senza mai smettere di essere normali

A sinistra Torino, 11 maggio 1947, Italia-Ungheria (3-2). Valentino Mazzola ha appena superato un avversario e si appresta a tirare; a destra Valentino con la maglia del Toro scudettata

A sinistra Torino, 11 maggio 1947, Italia-Ungheria (3-2). Valentino Mazzola ha appena superato un avversario e si appresta a tirare; a destra Valentino con la maglia del Toro scudettata

L'Italia con la giacca rivoltata e le mani nere
C'è un'Italia, là fuori, che si sta ricucendo addosso la dignità. Non ha i soldi per il sarto, quindi usa filo di fortuna e una pazienza che sconfina nella santità. È un Paese che prende il tram all'alba con le scarpe ancora umide della pioggia del giorno prima, che torna a casa con le mani nere di grasso e la testa piena di conti che non tornano mai.
Siamo a Torino. E Torino, in quel tempo, non è una città. È un codice di comportamento. È disciplina sabauda mischiata alla fuliggine delle fabbriche. Qui non si fanno sceneggiate, qui si lavora. Si soffre in silenzio, si ingoia amaro e si sputa dolce, se capita.
La domenica, però, succede qualcosa. Quella gente lì, quella che ha la schiena piegata sei giorni su sette, si concede l’unico lusso che non sembra un peccato mortale: guardare undici uomini in maglia granata correre dietro a un pallone come se fosse l'unica promessa mantenuta dal dopoguerra.

Il ragazzo di Cassano d'Adda che non faceva teatro
In mezzo a questa liturgia laica compare un uomo.
Viene da lontano, da Cassano d’Adda. È figlio di quella pianura lombarda che ti insegna presto una verità scomoda: niente arriva gratis, e se arriva gratis, c'è sotto la fregatura.
Valentino Mazzola arriva al Torino e non porta le valigie piene di doppi passi o di veroniche da circo. Porta qualcosa di più raro, e di immensamente più utile: la capacità di trascinare gli altri senza aprire bocca.
Non è un attore. Nel calcio di oggi avrebbe difficoltà, perché non sa vendersi. Ma in quel calcio lì, fatto di fango pesante e palloni di cuoio che se ti prendono in faccia ti lasciano il segno per una settimana, lui è il Re. È uno che quando le cose si mettono male, non cerca l'arbitro con lo sguardo. Cerca la soluzione.

Filadelfia: il tempio della gente comune
Il Filadelfia — qui e ora — non è uno stadio. Toglietevi dalla testa le arene moderne con i seggiolini comodi e il wi-fi. Il Filadelfia è un cortile di casa allargato. È un quartiere che si stringe.
Le gradinate sono piene di facce che si somigliano: operai della FIAT, piccoli commercianti, gente che ha bisogno di un risarcimento morale. Non vogliono soldi, vogliono senso. E il Grande Torino, per quattro anni, cinque scudetti, è il modo più credibile per dire al mondo che la vita, ogni tanto, premia chi non molla.
In un'Italia che deve ricostruire tutto, dai ponti alle coscienze, loro sono già ricostruiti. Sono una macchina perfetta. Sono l'ordine nel caos.

Il quarto d'ora e il trombettiere ferroviere
Mazzola è il capitano di questa faccenda. Ma non perché ha la fascia al braccio. Lo è perché sa leggere l'aria.
Capita, a volte, che il Torino si addormenti. Sono troppo forti, e la superiorità a volte ti rende pigro, borghese. La partita langue, gli avversari prendono coraggio. Il pubblico mormora.
Allora succede.
Non è tattica, è mistica.
Sugli spalti c'è un signore, Oreste Bolmida, ferroviere. Ha una tromba.
Tre squilli.
Un suono secco, metallico, che taglia la nebbia di Torino come una lama.
In campo, Valentino Mazzola sente. Si ferma. Guarda i compagni. E fa quel gesto.
Si rimbocca le maniche della maglia.
Non è un vezzo estetico. È una dichiarazione di guerra. È come se dicesse: «La ricreazione è finita. Adesso si lavora».
Nasce il "quarto d'ora granata". Per quindici minuti, il calcio smette di essere uno sport governato da regole logiche e diventa un'alluvione. Il Torino non gioca, travolge. Non costruisce azioni, sfonda i muri. Sette, otto gol in pochi minuti.
È la dimostrazione pratica di un concetto che sui libri di sociologia non trovate: quando il capo decide di portarti fuori dal fango, tu lo segui, anche se hai le gambe a pezzi. Perché lui sta correndo più forte di te.

Lisbona: l'ultimo valzer tra amici
Il resto sono numeri. 29 gol in una stagione per un mezzala, record, scudetti a raffica, la Nazionale che veste granata per dieci undicesimi. Ma i numeri sono freddi, e questa storia è calda.
Il finale non arriva come un tramonto, dolce e lento. Arriva come una porta sbattuta in faccia dal vento.
Lisbona, 3 maggio 1949.
Il Torino vola in Portogallo per un'amichevole. Non ci sono punti in palio, c'è l'amicizia. Francisco Ferreira, capitano del Benfica, si ritira. Mazzola gli ha promesso di esserci. È una festa. È il calcio che unisce due sponde d'Europa senza bisogno di trattati diplomatici.
Giocano, ridono, si scambiano le maglie. È la vita normale degli eccezionali.
Il giorno dopo si torna a casa. Si pensa al campionato, che è praticamente vinto, si pensa alla famiglia, alle cose da fare.

4 maggio, ore 17:03: il silenzio di Dio
Torino. Il 4 maggio il cielo è basso, gonfio di pioggia e cattiveria. La visibilità è zero.
L'aereo, un Fiat G.212, scende verso l'aeroporto. Ma i conti non tornano. L'altimetro inganna, il vento spinge.
Alle 17:03, la storia si schianta contro il muraglione posteriore della Basilica di Superga.
Non si salva nessuno.

I CalciatoriValerio Bacigalupo, Aldo Ballarin, Dino Ballarin, Émile Bongiorni, Eusebio Castigliano, Rubens Fadini, Guglielmo Gabetto, Ruggero Grava, Giuseppe Grezar, Ezio Loik, Virgilio Maroso, Danilo Martelli, Valentino Mazzola, Romeo Menti, Piero Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti, Julius Schubert.

Staff tecnico, dirigenti e accompagnatori: Ernő Erbstein (Direttore Tecnico), Leslie Lievesley (Allenatore), Osvaldo Cortina (Massaggiatore), Arnaldo Agnisetta (Direttore Generale), Ippolito Civalleri (Dirigente accompagnatore), Andrea Bonaiuti (Organizzatore della trasferta).

I Giornalisti: Renato Casalbore (Tuttosport), Renato Tosatti (Gazzetta del Popolo), Luigi Cavallero (La Stampa).

L'Equipaggio: Pierluigi Meroni (Primo pilota), Cesare Biancardi (Secondo pilota), Celeste D’Inca (Motorista), Antonio Pangrazzi (Radiotelegrafista).

In un secondo, l'Italia perde la sua squadra, ma perde molto di più. È come se in una casa buia, dove si era appena riaccesa la luce, saltasse di nuovo il contatore. Nessuno parla. Nessuno sa cosa dire.
Superga non è una tragedia sportiva. È un lutto di famiglia. È il momento in cui un Paese intero si sente orfano.

L'assenza che urla più della presenza
Mazzola, che era il segnale, diventa l'assenza.
Da quel giorno, il Torino smette di essere solo una squadra di calcio e diventa una religione della memoria. Diventa un'identità.
Si dice "il Grande Torino" e sembra che basti l'aggettivo per spiegare l'immensità. Ma non basta. Perché la grandezza vera non era nelle coppe in bacheca.
La cosa che ti stringe la gola — e qui probabilmente Soriano accenderebbe una sigaretta guardando il vuoto — è che Mazzola non lo ricordiamo per un gol all'incrocio.
Lo ricordiamo per quel comando semplice: «Adesso».
In un mondo che ti chiedeva di abbassare la testa e obbedire, lui si rimboccava le maniche e comandava il destino.
E oggi, quando sali a Superga e leggi quei nomi sulla lapide, non stai cercando nostalgia. Stai cercando un punto fermo. Stai cercando la prova che, da qualche parte nel tempo, è esistito un momento in cui bastavano tre squilli di tromba e la volontà di un uomo per rimettere a posto il mondo, almeno per quindici minuti.

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