La polvere di Formosa e l’urgenza di restare verticali
C’è un punto dell’America Latina dove il calcio non è un passatempo per la domenica pomeriggio: è l’unico modo che hai per non cadere. Formosa, nord dell’Argentina. Coordinate geografiche che sanno di confine, terra larga, dura, spaccata dal sole. Las Lomitas. Qui non si nasce con un destino piegato in tasca come un fazzoletto pulito: si nasce con la polvere addosso e con la necessità, brutale, di scegliere in fretta cosa diventare. O scappi, o resti. E se resti, devi essere duro come il quebracho. Francisco “Pancho” Sá viene da lì. E forse proprio per questo, perché ha respirato quell’aria secca fin dal primo vagito, capisce prima degli altri una verità fondamentale: certe vite non chiedono applausi. Chiedono di resistere.
Firmare la terra, non il cielo: l’estetica della resistenza
Il racconto comincia lontano dai riflettori, dove non c'è traccia di glamour. Non siamo in uno stadio da cartolina, siamo in una geografia che ti educa alla misura. Ti insegna che ogni centimetro si conquista sputando sangue, e che l’eleganza vera non è un orpello, ma è fare il tuo mestiere senza pretendere che l'occhio di bue ti illumini. Pancho è un difensore. Attenzione: non uno di quelli che firmano il cielo con un colpo di tacco o un lancio di quaranta metri. Lui è uno che firma la terra. Quella terra che si impasta sotto i tacchetti di alluminio quando piove, quando la partita smette di essere gioco e diventa lotta greco-romana, quando il pubblico non ti chiede bellezza, ti chiede solo di non crollare. Di essere lì, immobile, mentre tutto intorno trema.
Avellaneda, anni Settanta: la fabbrica del destino
Poi succede l’Argentina degli anni Settanta. Un periodo elettrico, nervoso. Le città sembrano grandi metropoli europee, ma se gratti la superficie, dentro hanno ancora i barrios che si riconoscono dall’odore: ferro, benzina, carne alla brace che sfrigola sulle parrillas, pioggia acida. L’Independiente lo prende e lo mette nel posto più serio che esista a sud dell'Equatore: la linea sottile che separa la speranza dall’umiliazione. E qui entra il primo dettaglio che vale come una fotografia in bianco e nero: la Doble Visera, lo stadio di Avellaneda oggi si chiama Estadio Libertadores de America Ricardo Enrique Bochini . Non è soltanto un campo di calcio. È una fabbrica di serate decisive. Un luogo dove la gente non “va a vedere”, va a misurarsi.
L’uomo del “qui e ora” e la dittatura del risultato
E Pancho, in quel posto che mangia l'anima, fa la cosa più difficile del mondo: diventa affidabile. Non nel senso burocratico del termine, come un impiegato del catasto. Ma nel senso umano. Quello che chiameremmo il “qui e ora”: la palla arriva, l’avversario accelera, lo stadio trattiene il fiato in un silenzio religioso, e tu devi scegliere. Sempre. In un secondo. Senza poesia. La poesia viene dopo, quando qualcuno prova a raccontarti al bar. Lì, in quel momento, c'è solo la fisica dei corpi che si scontrano.
Quattro notti in fila: quando l’America divenne il cortile di casa
Tra il 1972 e il 1975 l’Independiente compie l'impensabile: vince quattro Coppe Libertadores consecutive. Quattro. Di fila. Non è una statistica da almanacco: è un’epoca geologica. È come dire che per quattro anni, quando in Sudamerica si accendono le luci più cattive, quelle che illuminano le notti di Santiago o di Montevideo, c’è una squadra che entra in campo come se quella notte fosse già sua per diritto divino. In mezzo, a fare da colonna vertebrale, c'è Pancho Sá.
L'autogol e la cicatrice: imparare a sanguinare senza morire
Ma la vita, si sa, a volte fa il furbo e ti presenta il conto. Nella Libertadores del 1973, nella finale contro il Colo-Colo, compare perfino un autogol a suo nome. Un taglio minimo, un dettaglio che sembra messo lì da uno sceneggiatore sadico per ricordarti che nessuno, nemmeno il più duro dei difensori, attraversa le coppe senza graffi. Ma l’Independiente non crolla. E quella coppa arriva lo stesso. È già una lezione di vita: puoi inciampare anche nella partita più importante della tua esistenza, ma se la tua identità è fatta di granito, ti rialzi. Ti pulisci i pantaloncini. E continui.
Guardare l'Europa negli occhi e scoprire che l'Ajax viene da Marte
Pancho vince, e vince ancora. Nel 1973 c’è anche l’Intercontinentale: quel momento magico in cui l’America del calcio guarda l’Europa negli occhi e non abbassa lo sguardo. Lui, anni dopo, con quella onestà brutale dei vecchi saggi, ricorderà che erano partite equilibrate. Quasi sempre. Poi mette una postilla che vale come un colpo di scena teatrale: «Salvo contro l’Ajax». Come dire: si può competere con tutti, siamo uomini, ma ci sono squadre che appartengono a un’altra temperatura, a un altro sistema solare.
Una chitarra nello spogliatoio: il blues del difensore centrale
E intanto, mentre tutto questo succede, c’è un’immagine laterale, da romanzo vero, da pagina stropicciata: Pancho e la chitarra. Un difensore roccioso, uno che usa i gomiti come armi improprie, che porta la musica nello spogliatoio. Non per fare il personaggio, ma perché chi vive di pressione, chi ha lo stomaco annodato dalla paura di sbagliare, ha bisogno di qualcosa che allenti i nodi. Questa è la sua umanità, e per chi racconta storie è oro colato: la durezza in campo e la delicatezza fuori. Il calcio, quando è grande, è sempre questo: una magnifica contraddizione.
La Bombonera non è un teatro, è una vertigine
Poi arriva il Boca Juniors. E qui il film cambia scenografia: La Bombonera è un teatro verticale che ti cade addosso, e il quartiere è un animale vivo che ti cammina accanto, respirandoti sul collo. Il Boca prende Pancho e lo porta dentro un’altra forma di destino: non più la macchina perfetta e aristocratica di Avellaneda, ma la squadra del popolo, quella che deve imparare a vincere anche quando il mondo non è d’accordo, anche quando il vento tira contro.
Sei volte Re: il record silenzioso che pesa come un macigno
Con il Boca, Pancho vince ancora la Libertadores. Due volte: 1977 e 1978. E qui c’è un fatto che, detto piano, pesa più di qualsiasi aggettivo barocco: Pancho Sá arriva a sei Coppe Libertadores in carriera. Sei. È un record che esiste, ma non urla. Non è un record da copertina patinata, è un record da spogliatoio, da gente che sa l'odore dell'olio canforato. Uno di quei record che capisci davvero solo se sai cosa significa attraversare trasferte infinite, pressioni inumane, ritorni in stadi ostili dove ti tirano le pietre, notti in cui la palla pesa il doppio perché è bagnata di rugiada e paura.
Vincere facendo un passo indietro: la lezione di Mönchengladbach
Se vuoi una frase che tenga insieme tutto, è questa: Pancho Sá non è l’uomo del gol memorabile. È l’uomo del momento memorabile. Ci arriva, ci sta, e spesso lo attraversa senza farsi travolgere. E c’è un’ultima immagine, quasi crudele perché è vera: l’Intercontinentale del Boca contro il Borussia Mönchengladbach. Si gioca nel 1978. All’andata finisce 2–2. Al ritorno, in Germania, il Boca vince 3–0, una lezione di calcio. Ma in quella partita, per scelte di ritmo e di velocità, Pancho non è al centro della scena. È un promemoria necessario: anche i vincenti, qualche volta, vincono da un passo indietro. Eppure quel trofeo è anche suo. Perché le coppe, quelle vere, sono proprietà collettiva: appartengono anche a chi ha retto la baracca quando non c’erano le telecamere a riprendere.
La frontiera del fango e la leggenda che non va in TV
In nazionale, Pancho Sá ci va. Non diventa un’icona mondiale come Kempes o Maradona. Fa 15 presenze, ed è nel gruppo del Mondiale 1974. Ma la sua leggenda non nasce lì. La sua leggenda nasce dove il calcio è ancora un’ultima frontiera: il Sudamerica delle coppe, dei viaggi in pullman, dei campi che sembrano trincee della Prima Guerra Mondiale e dei ritorni che ti mangiano lo stomaco.
L’uomo indispensabile che non voleva gli applausi
Se lo guardi bene, oggi, Pancho Sá racconta una cosa che rischiamo di perdere per sempre: l’idea che si possa essere indispensabili senza essere appariscenti. Che si possa vivere di calcio senza trasformarlo in uno spettacolo permanente di vanità. Che il romanticismo, quello sporco di fango e sudore, non è solo un dribbling ubriacante: è restare in piedi quando tutti gli altri stanno per cadere.
E allora sì: sei Libertadores sono un record mostruoso. Ma il vero record di Pancho Sá è un altro, più umano e più raro. È la capacità di essere sempre lì, puntuale come una sentenza, proprio quando il calcio smette di essere un gioco e torna a essere quello che era a Formosa: destino.